Spazio satira
L'anniversario
03.01.2025 - 21:00
Alle 22.45 del 4 gennaio del 2015, a seguito di un infarto, venne improvvisamente a mancare uno dei più grandi ed influenti cantautori italiani di sempre: Pino Daniele. Primogenito di sei figli di una famiglia di origini piuttosto modeste, manifestò sin dall’infanzia una spiccata predisposizione per la musica. La sua prima esibizione su un palco avvenne all’età di dodici anni, ma, a causa di una imprevista stecca vocale, quell’esordio fu per lui in verità piuttosto sconfortante. Durante l’adolescenza imparò a suonare la chitarra; grazie ad una lunga e costante applicazione nello studio dello strumento, acquisì una tecnica sopraffina che lo rese uno dei migliori strumentisti italiani di musica leggera.
Dopo una breve esperienza con il gruppo dei “New Jet”, fu tra i fondatori del complesso musicale chiamato “Batracomiomachia”; proprio in quel periodo iniziò a far conoscere al pubblico le sue primissime composizioni. Nel 1976, pur di riuscire ad entrare a far parte di una delle band partenopee più innovative ed interessanti dell’epoca, “Napoli Centrale”, si spacciò come bassista, e ciò in quanto il suo talentuoso ma scorbutico leader (il sassofonista James Senese), non vedeva di buon occhio i chitarristi, che considerava troppo egocentrici e poco funzionali al progetto musicale che voleva portare avanti. In quegli anni Daniele iniziò a comporre canzoni con una certa regolarità ed a proporle alle case discografiche; alla fine venne notato dalla Emi, che decise di fargli incidere il primo 45 giri che conteneva due brani piuttosto particolari (e precisamente “Ca calore” e “Fortunato”), che erano caratterizzati da una spiccata impronta dialettale, e che vennero poi inclusi nel suo primo album, intitolato “Terra mia” (1977).
Già per la registrazione di quel 33 giri Daniele si avvalse della preziosa collaborazione di alcuni degli artisti più talentuosi del panorama musicale napoletano dell’epoca (tra i quali c’era anche Enzo Avitabile). Nonostante l’oggettiva originalità delle canzoni che lo componevano, ed un’indiscutibile qualità degli arrangiamenti, il disco vendette soltanto tremila copie, rimanendo peraltro confinato in un contesto geografico piuttosto circoscritto. Tale circostanza indusse i discografici a congelare momentaneamente la carriera del cantautore napoletano; sino a quando, anche grazie all’intervento dell’intraprendente personal manager italo americano Joe Lodato (il quale aveva avuto la possibilità di ascoltare i provini delle nuove canzoni composte da Pino), la Emi non si convinse a puntare con maggiore decisione sul talento di quel timido e riservato chitarrista, ed a finanziare la produzione e la distribuzione del secondo lp.
L’omonimo “Pino Daniele” uscì all’inizio del 1979, e grazie ai brani particolarmente ispirati che lo componevano (come ad esempio “Je so’ pazzo”, “Je sto vicino a te”, “Basta na jurnata ‘e sole”, e “Putesse essere allero”) ed ai musicisti di primissimo livello che vi suonavano (tra gli altri segnaliamo Rino Zurzolo, Ernesto Vitolo, Rosario Iermano, Agostino Marangolo, Tony Cicco, Karl Potter, Gigi de Rienzo e James Senese), ricevette positivi riscontri da parte della critica e del pubblico anche al di fuori dell’area geografica campana. E ciò nonostante il massiccio utilizzo, per i testi delle canzoni, della lingua napoletana.
Il vero successo a livello nazionale arrivò tuttavia l’anno successivo, quando il giovane cantautore partenopeo pubblicò uno degli album più belli della storia della musica leggera italiana di ogni tempo: “Nero a metà”. Con quell’lp, che sublimava le tradizioni folcloristiche della sua terra senza svilirle o banalizzarle, che mescolava mirabilmente culture ed atmosfere mediterranee ed angloamericane, e che soprattutto elaborava il jazz ed il blues adattandolo ad un tessuto melodico ed armonico tipicamente italiano, Pino Daniele diede corpo ad una vera e propria rivoluzione musicale, la quale ha lasciato una impronta artistica indelebile nella nostra cultura popolare. Infatti, facendo tesoro della tradizione musicale partenopea che lo aveva influenzato sin da giovanissimo (impersonata, su tutti, da Sergio Bruni e Roberto Murolo), ma nel contempo utilizzando un registro musicale assolutamente moderno, fuse ritmi, stili e tendenze come solo i giganti sono in grado di fare, e si erse ad originalissimo innovatore; per di più creando – di fatto – non solo un nuovo genere (il cosiddetto “Taramblu”, e cioè un affascinante e coinvolgente miscuglio tra la tarantella, la rumba ed il blues), ma addirittura una nuova lingua (il cosiddetto “italglish”).
Quell’affascinante “slang” si distaccava nettamente dalla lirica tradizionale della canzone napoletana classica, e costituiva una arguta elaborazione di quello che – circa vent’anni prima – aveva iniziato ad abbozzare un altro grandissimo artista partenopeo: Renato Carosone. I testi di Daniele furono il frutto di un’ispirata ibridazione sintattico-grammaticale che sorprese, incuriosì, ispirò e divertì tutti; e che peraltro balzava agli occhi sin dai titoli dei suoi brani (basti pensare, ad esempio, a “I say i’ sto ccà”, a “Just in Mi”, a “Guardami in face”, a “Me so’ imbriacate e’ te, forever”). La sua fu una scelta estremamente coraggiosa, perché molte frasi apparivano oggettivamente incomprensibili a tutti coloro i quali che non avevano dimestichezza con il dialetto. Eppure colpivano, rimanevano impresse, ed entrarono rapidamente a far parte del linguaggio colloquiale collettivo.
Lui stesso ne era perfettamente consapevole, tanto è vero che, una volta, in un’intervista, disse: «Quello che canto io non è nemmeno il dialetto vecchio, quello di norma, quello di retorica». In una canzone (“Ferryboat”), addirittura cantò: “I speak americano sulamente pe’ pazzià”. Come giustamente osserva lo storico Pasquale Scialò, nella sua splendida monografia dedicata alla canzone napoletana, «Pino Daniele piegò il dialetto al servizio della sonorità, senza per questo rinunziare alla componente semantica, convinto che il napoletano risultava tra le lingue europee più musicali…». In altre parole, «adottò un particolare gergo di mestiere, la “parlesia”… un linguaggio parassitario del dialetto napoletano, di cui assume caratteristiche fonetiche, morfologiche e sintattiche nonché termini lessicali… che in passato era legato alla pratica della musica ambulante dei posteggiatori».
Tale geniale innovazione linguistica, connotata da raffinatezze di rara potenza poetica, unita ad un’oggettiva, straordinaria padronanza della tecnica musicale e ad una vocalità particolarissima e tagliente, contribuirono alla nascita di una nuova forma canzone, novità che indusse Renzo Arbore ad osservare, giustamente: «Pino Daniele ha il merito di aver inventato la canzone napoletana d’autore moderna, trovando nuovi accordi, avvicinando la tematica alla Napoli di oggi (la Napoli che ha condiviso con Massimo Troisi), e battendosi contro gli stereotipi: una battaglia curiosa e difficile, perché il rischio era quello di cancellare anche le cose belle della Napoli classica, e della cultura partenopea autentica».
La melodiosa rivoluzione portata avanti da Daniele, che maturò soprattutto a cavallo tra la fine degli anni settanta e la prima metà degli anni ottanta, consentì pertanto alla musica italiana di trovare nuove, originalissime manifestazioni espressive, che peraltro attirarono l’attenzione di musicisti di fama internazionale, i quali accettarono volentieri di collaborare con il grande autore italiano. Basti pensare ad Eric Clapton, a Pat Metheny, a Chick Corea, ad Al di Meola, ad Alphonso Johnson, ed a Wayne Shorter, solo per citarne alcuni. Ad avvicinarli a lui furono certamente la non comune sensibilità creativa di Pino, ma anche una umiltà ed una disponibilità che raramente si rinvengono in stelle di prima grandezza, quale lui era.
Il coraggio creativo di Daniele risulta spesso evidenziato anche dalle tematiche affrontate nei testi delle sue innumerevoli composizioni. Sebbene egli fosse (ovviamente e giustamente) legato alla straordinaria bellezza ed unicità della sua città natale (…“Napule è mille culure… Napule è na cammenata, dint’ ‘e viche ‘mmiezz’ all’ate”), non disdegnava tuttavia di descrivere, senza filtri, le profonde contraddizioni della sua terra. Ed infatti ci regala spesso malinconici affreschi del difficile, variegato e complesso contesto culturale partenopeo (“…Chi tene ‘o mare, cammina cu ‘a bocca salata, chi tene ‘o mare ‘o ssape, ca è fesso e contento, chi tene ‘o mare, o ssai, non tene niente…”). Immagini vividissime (“…che calore, che calore dice la chiattona, sagliènne ‘e ggrare non c’a fa’, che calore, che calore dice ‘o guaglione, ca se se scassano ‘e tazz’ i l’aggio ‘a pavà”), talvolta spietate (“a vita ‘è solo culo rutto”), non di rado condite da accenni sociali (“…adesso c'ha la tessera del partito, compra il giornale tutti i giorni ma è un uomo finito, la mattina va a strillare al collocamento, tanto ’o ssape ca è vennuto pe’ poco e niente”), morali (“E vulisse nun munno onesto, ma te diceno sempe ’o stesso, ’ncoppa ’e sorde ’a gente, nun guarda ’nfaccia a nisciuno”), e da pungenti riferimenti politici (“…na tazzulella ‘e caffè, cu 'a sigaretta ‘a coppa pe non verè, ca stanno chine ’e sbaglie, e fanno sulo ’mbruoglie, s’allisciano, se vattono, se pigliano ’o cafè, e nuie passamm ’e uaie, e non putimmo suppurtà, e chisti invece ’e rà na mano, s’allisciano, se vattono, se magnano ’a città”).
Non mancano ad ogni buon conto, nelle sue liriche, le frasi ironiche (“…e il mare, e il mare, e il mare sta sempe llà, tutto spuorco, chino ’e munnezza, e nisciuno ’o vo’ guardà”), e le allusioni sessuali (“Tarumbò… s’alliscia ’o bastone, senza e se fà vedè”, oppure “…ma che te ne fotte…basta che stai buone a sotto”). Tuttavia, spesso, a trasparire nei suoi testi, è soprattutto una malinconia latente (“…Donna Cunce’, parlate, Donna Cunce’, ricite, che ‘o tiempo d’è cerase è già fernuto”), prova evidente di una sensibilità artistica acutissima, messa al servizio di una creatività straripante (oltre duecentocinquanta canzoni, e diverse colonne sonore). Ed infatti Daniele indugia sovente a descrivere luoghi, persone, sapori ed odori, della sua infanzia: “…I’ nun m’arricordo cchiù si stevemo bbuono, c’a paura ’e ghì a scola, o ’e suppurtà, ’a gente dint’a quatt’mura, e so’ parole o è fantasia, o sto cagnanno ’o ssaje pur’io, Gesù Gesù, come si cambia è vero, e poi non te ne accorgi più… i’ nun m’arricordo cchiù, si stevemo bbuono, cu ll’addore d’o ccafè pe tutt’a casa, ’e ’o ssaje ancora nun m’è passato, e so’ parole, o è fantasia, oppure chesta è ‘a vita mia…”.
Scegliere il brano più bello di Pino Daniele è davvero difficile. “Alleria”, “Quando chiove”, “Have you seen my shoes”, “Jesce juorno”, “Gesù Gesù”, “Che ore so”, “Anima”, “Pigro”, sono infatti capolavori assoluti senza tempo, che hanno lasciato un segno indelebile nella nostra memoria. E sono soltanto alcuni dei gioielli musicali che egli ha composto nel corso della sua luminosa carriera. Tra gli album, invece, quelli pubblicati tra il 1979 ed il 1984 (“Pino Daniele”, “Nero a metà”, Vai mo’”, “Bella ’Mbriana” e “Musicante”) sono forse – a mio modesto avviso – i migliori. Indipendentemente dai gusti personali, ad ogni buon conto, è innegabile che il grande cantautore partenopeo (anche se lui una volta ritenne opportuno precisare che non si considerava un cantante «perché credo nel musicista, nel far musica, nell’usare le parole con la musica, non solo coi testi») sia stato uno straordinario compositore di immortali melodie, un geniale innovatore, ed uno dei più amati ed apprezzati esponenti della musica d’autore di ogni tempo.
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