L'anniversario
14.11.2025 - 16:00
Il 16 novembre del 1945, e quindi esattamente ottanta anni fa, venne costituita a Londra la “United Nations Educational, Scientific and Cultural Organization”, da tutti meglio conosciuta con l’acronimo Unesco. Il famoso ente internazionale «si pone lo scopo – si legge sul suo sito internet – di contribuire alla pace e alla sicurezza mondiale, mediante la cooperazione internazionale nei settori di sua competenza», e ciò attraverso la stimolazione della «conoscenza, la sua diffusione, e il libero flusso di idee tese a favorire la comprensione reciproca». Tale obiettivo iniziò ad essere perseguito anche attraverso l’individuazione, in tutto il mondo, di luoghi geografici che potessero essere qualificati come “patrimonio dell’umanità”, e quindi in grado di identificare e rappresentare i simboli per eccellenza della “bellezza culturale” intesa in senso lato.
Nel 1950 venne istituita anche la Commissione Italiana dell’Organizzazione, che, «nel quadro degli interessi generali della politica nazionale nei campi dell’educazione, della scienza, della cultura, della comunicazione e dell’informazione», e con l’obiettivo di «agevolare l’esecuzione dei programmi, e la promozione delle iniziative e delle priorità dell’Unesco», iniziò ad operare fattivamente per far riconoscere al nostro Paese il giusto ruolo di assoluto protagonista nel panorama culturale mondiale. Ed infatti l’Italia è attualmente la nazione che vanta il maggior numero di siti inclusi nella lista dei luoghi “patrimonio dell’umanità” (ben sessantuno, tra i quali, ad esempio, i centri storici di Roma, Napoli, Firenze, Venezia, Palermo, Verona, Siena, Vicenza, Mantova e Matera, ma anche le Cinque Terre, la Reggia di Caserta, le Dolomiti, Castel del Monte, Pompei ed Ercolano, la Valle dei Templi, la Costiera amalfitana, ed il Parco Nazionale del Cilento, solo per citarne alcuni).
Nel 2003 l’Unesco ha poi deciso di salvaguardare e valorizzare anche i cosiddetti “patrimoni immateriali”, e cioè tutte quelle antiche tradizioni di origine popolare che, trasmesse di generazione in generazione in determinati contesti territoriali, costituiscono rappresentativi esempi culturali e sociali i quali, attraverso una interazione prevalentemente storico-naturale, sono stati in grado di alimentare il senso di identità delle popolazioni di varie zone del mondo.
Basti pensare, per l’Italia, all’opera dei Pupi Siciliani (2008), alla dieta mediterranea (2010), all’arte dei pizzaioli napoletani (2017), alla pratica del canto lirico (2023). Durante la pandemia di Covid Sars, la giornalista milanese Maddalena Fossati Dondero, direttrice de “La cucina italiana”, lanciò l’idea di candidare proprio quest’ultima come patrimonio immateriale dell’umanità, e ciò in quanto, grazie alle sue peculiari caratteristiche, e per una serie di ragioni, è davvero unica nel suo genere.
Essa, infatti (come hanno opportunamente scritto Massimo Montanari e Pierluigi Petrillo, nel loro breve e recentissimo saggio appena pubblicato per Laterza, intitolato “Tutti a tavola: perché la cucina italiana è un patrimonio dell’umanità”), nel corso dei secoli ha saputo «farsi influenzare da un’infinità di culture diverse, trattenendo qualcosa da ciascuna e poi restituendola dopo averla fatta propria, arricchita, trasformata, italianizzata… Prendete il caffè: in Italia non ci sono piantagioni, eppure una volta che lo abbiamo conosciuto ci ha conquistato, e oggi è impossibile dissociare il rito del caffè dal modo di essere degli italiani. Prendete la pasta: sapete che la pratica dell’essiccazione – base della storia italiana della pasta che ha determinato il successo mondiale delle nostre produzioni migliori – è stata importata in Italia dagli arabi i quali, a loro volta, l’avevano appresa dai persiani? Qualcuno per questo negherebbe che vi sia una profonda identificazione tra la cultura italiana e la pasta? E che dire del pomodoro, la cui origine non è certamente italiana, ma che oggi è elemento caratterizzante di ogni piatto nazionale, a partire dalla pizza margherita? Non è l’origine degli ingredienti a determinare l’italianità o meno di una ricetta, ma il senso che quella ricetta, o pietanza, assume nella nostra cultura».
Lo scorso 10 novembre l’Unesco ha espresso il primo parere favorevole alla candidatura della “cucina italiana” come patrimonio culturale immateriale dell’umanità. Tale decisione preliminare rappresenta un passo fondamentale verso il sì definitivo; che, se del caso, verrà adottato dal Comitato intergovernativo dell’organizzazione che si riunirà a New Delhi dall’8 al 13 dicembre prossimi. Si auspica, quindi, che si arrivi a riconoscere al più presto alla nostra variegata, variopinta, e saporitissima cucina, il ruolo che effettivamente merita: quello di “testimonial” di un modo tutto nostro di intendere la convivialità, di vivere il quotidiano gesto del consumare una pietanza, di nutrirci, sfruttando al meglio le incredibili unicità alimentari del nostro territorio.
Qualora ciò dovesse avvenire, verrebbe dato il giusto risalto al significato antropologico dell’arte culinaria italiana. Non quindi di un singolo prodotto, non dunque di un singolo piatto, non quindi di una singola realtà territoriale, ma di un modo – per di più unico, sebbene fondato su una straordinaria diversità – di mettere in pratica un’attività umana del tutto naturale, quale è quella di alimentarsi. Osservano infatti Montanari e Petrillo: «Candidare la cucina italiana all’Unesco è il modo attraverso cui affermare – e condividere – il valore dell’interculturalità, della libertà in cucina e del multiculturalismo gastronomico, provando a far passare il messaggio, a livello mondiale, che anche il cibo è cultura e che, proprio grazie a ciò, il cibo è dialogo e costruisce ponti e collegamenti tra popoli diversi. Esattamente l’opposto del sovranismo alimentare»
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