Colpi di testa
05.12.2025 - 15:00
Il jazz è un genere musicale che nacque negli Stati Uniti agli inizi del XX secolo e costituisce il frutto della progressiva elaborazione di molteplici correnti artistiche, che sono in buona parte di provenienza afroamericana. Nel corso del tempo, è andato sviluppandosi attraverso forme espressive assai diverse l’una dall’altra (basti pensare, a titolo di mero esempio, all’enorme differenza che esiste tra i brani “swing” tipici degli anni Quaranta del secolo scorso, ed il “be-bop” che venne inventato da Charlie Parker all’inizio degli anni Sessanta). Essendo spesso basato sull’improvvisazione, il jazz tende ad esaltare le capacità tecnico-espressive dei musicisti che lo eseguono.
Tra i suoi migliori interpreti di sempre, va certamente ricordato il pianista statunitense Keith Jarrett. Il quale era talmente bravo ad improvvisare ed a comporre contemporaneamente (utilizziamo volutamente il tempo passato perché purtroppo, a causa di un ictus che lo ha colpito nel 2018, oramai non si esibisce più), che il leggendario trombettista Miles Davis, una volta, dopo averlo sentito suonare ad un concerto, gli si avvicinò e gli domandò, curioso: «Come fai a suonare in quel modo, partendo dal nulla?». Lui gli rispose, senza battere ciglio: «A dire il vero non lo so. Lo faccio e basta!». In occasione di un’intervista, Jarrett spiegò in quale modo era solito prepararsi ad affrontare il delicato ed impegnativo momento delle sue esibizioni dal vivo: «Quando sono in concerto da solo devo fronteggiare due sfide: tirar fuori buona musica, e non tirar fuori buona musica che ho già eseguito; e, tra le due, è la seconda la sfida più difficile. Poi ci sono le sfide personali, perché quando ti trovi in camerino, prima di improvvisare, non sai nulla di quello che succederà. Questo ti porta ad essere curioso, ed allora ti ripeti: so che ci sono riuscito in passato, ma davvero non so quale è il procedimento che conduce ad una buona performance».
Alla metà degli gli anni Settanta, il grande pianista americano, tenne alcune esibizioni solistiche in Europa. Il 24 gennaio del 1975 doveva esibirsi sul palco del Teatro dell’Opera di Colonia (austera struttura che, prima di allora, non aveva mai ospitato un concerto jazz), nell’ambito della rassegna “New jazz in Köln”. Sebbene l’attesa per quel concerto fosse assai alta (erano stati infatti venduti ben 1.400 biglietti), nessuno dei presenti poteva mai immaginare che la performance alla quale avrebbero assistito quella sera sarebbe entrata di diritto nella storia della musica moderna.
Jarrett aveva espressamente chiesto agli organizzatori di fargli trovare sul palco un pianoforte a coda Bosendorfer 290 Imperial (strumento dotato di 97 tasti invece di 88 che, all’epoca, si contendeva il primato dell’eccellenza con quelli della Steinway). Al suo arrivo, invece, Jarrett trovò un pianoforte diverso, che era in cattive condizioni, era decisamente stonato, ed evidenziava un registro acuto piuttosto sottile, bassi troppo deboli e pedali malfunzionanti.
A causa della mancanza di tempo non risultò possibile sostituire lo strumento prima del concerto. L’artista, sebbene fortemente contrariato, e solo dopo pesanti pressioni da parte dell’organizzatrice (la diciassettenne Vera Brandes), accettò di esibirsi comunque. In un’intervista rilasciata qualche anno dopo il grande musicista americano raccontò la tensione dei momenti immediatamente antecedenti il suo ingresso sul palco: «Ho iniziato a pensare: lo farò. Ricordo di aver alzato il pugno in aria mentre uscivo dal backstage. Ho semplicemente guardato Manfred e ho detto: potere! O qualcosa di simile. Ciò che accadde con quel pianoforte fu che fui costretto a suonare in quello che all’epoca era un modo nuovo. In qualche modo sentivo che dovevo far emergere qualunque qualità avesse lo strumento».
Quella sera, nonostante tutto, sul palco del Teatro dell’Opera di Colonia prese corpo una delle performance più famose e celebrate della musica jazz di ogni tempo. Jarrett, evitando il più possibile i registri più “deboli” di quel malandato pianoforte, offrì infatti al pubblico in sala una mirabile dimostrazione del suo genio musicale, gestendo in maniera straordinaria la comprensibile tensione del momento, e dando vita ad un’improvvisazione leggendaria (che divenne un disco che venne pubblicato il 30 novembre del 1975, e, quindi, esattamente cinquant’anni fa, e che è diventato il più venduto album di “piano solo” della storia del jazz, con circa cinque milioni di copie).
Il critico musicale Alyn Shipton, nella sua splendida “Nuova storia del jazz” (peraltro ottimamente curata dal frusinate Vincenzo Martorella), così descrive la magia di quell’indimenticabile esibizione: «La musica contenuta nel disco ha una divisione naturale in quattro sezioni: la più lunga, in apertura, dura ventisei minuti, e la più breve, la quarta ed ultima parte, poco più di cinque. La creazione di brani di così ampio respiro ricorda l’opera di un’immaginazione di tipo architettonico, comparabile per ampiezza a quella di Bill Evans. Sicuramente la sezione finale rivela una forte visione compositiva, aprendosi con un tema solenne come un inno, con sfumature da ballad country, in cui Jarrett articola con chiarezza una linea melodica sugli accordi di accompagnamento… si trasforma in continue linee improvvisate».
Più precisamente, la prima parte è caratterizzata da un’evidente ricerca, da parte del musicista, della “melodia infinita”, da una percussività insistente, e da “barocchi arabeschi” di raffinata potenza espressiva. La seconda, che si snoda attraverso sequenze molto più larghe e melodiche, risulta invece colorata da una “classicità” evidente, e da una notevole eleganza armonica che, di fatto, allontana l’esecuzione dal jazz tradizionalmente inteso.
Quel leggendario concerto ha influenzato molti musicisti contemporanei. Basti prestare attenzione, ad esempio, allo splendido, sincopato fraseggio che Jarrett ci regala al minuto 5 e 50 del brano “Part II a” dell’album, poi evidentemente ripreso dal raffinato gruppo britannico dei Jamiroquai per arrangiare la celebre canzone “Virtual insanity” del 1996. Ad ennesima dimostrazione che la musica, e soprattutto quella buona, sa lasciare il segno. E che segno… Per la curiosità dei lettori più tecnici evidenzio volentieri che la memorabile esibizione di Keith Jarrett a Colonia venne fissata su nastro magnetico utilizzando due microfoni a condensatore Neumann modello U 67, e un registratore a bobine Telefunken M-5.
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