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Cinema

Shining, oltre la follia. Il capolavoro di Kubrick

L’horror che ha cambiato per sempre le regole del cinema

Shining, oltre la follia. Il capolavoro di Kubrick

Alla fine del 1975, dopo l’inatteso insuccesso che aveva accompagnato l’uscita nelle sale cinematografiche del suo “Barry Lindon”, il famoso regista americano Stanley Kubrick si mise alla ricerca di un nuovo soggetto che potesse ispirarlo particolarmente. Dato che in quel periodo si sentiva molto attratto dalle percezioni extrasensoriali e dai fenomeni paranormali, decise di scegliere il genere horror, e pertanto incaricò il suo staff di procurargli una grande quantità di romanzi e racconti di quel tipo.

All’inizio, a dire il vero, le sue avide letture risultarono tuttavia infruttuose. La sua segretaria raccontò infatti che lo sentiva spesso scaraventare i libri che stava prendendo in considerazione, e che non gli piacevano, contro la parete del suo studio. Un giorno, però, notò uno strano ed inusuale silenzio. Decise allora di entrare nella sua stanza, e lo trovò immerso nella valutazione di un romanzo di Stephen King, intitolato “Shining”, che era stato pubblicato all’inizio del 1977. Kubrick rimase folgorato da quella trama inquietante, la quale era basata su una storia che – attraverso un perfetto equilibrio tra mistero, follia, realtà ed influssi sovrannaturali – soddisfaceva in pieno l’idea di film che lui aveva in mente. Si mise pertanto subito al lavoro per sviluppare l’adattamento del libro, e, dopo una lunghissima e certosina preparazione (che era peraltro tipica del suo modo di lavorare), completò la scrittura della sceneggiatura. La trama del romanzo è nota: avendo la necessità di trovare un luogo tranquillo dove poter portare a compimento il suo prossimo romanzo, lo scrittore Jack Torrance (interpretato magistralmente nel film da Jack Nicholson) accetta l’incarico di custode invernale dell’Overlook Hotel, struttura alberghiera sperduta sulle Montagne Rocciose del Colorado, dove alcuni anni prima, uno dei suoi predecessori, a seguito di un raptus, aveva sterminato tutta la sua famiglia. Torrance porta con sé la moglie Wendy – impersonata dalla bravissima Shelley Duvall – ed il figlioletto Danny, che è dotato di poteri paranormali, e più precisamente del cosiddetto “Shining”, un “luccichio”, che gli consente di vedere nel futuro. Il prolungato isolamento dei tre nell’enorme albergo, influisce negativamente sul già precario equilibrio psichico di Torrance; il quale, poco alla volta, finisce anche lui per impazzire.

Kubrick, attraverso una regia praticamente perfetta, riesce a descrivere con indiscutibile maestria la perturbante inquietudine del luogo, i misteri che si nascondono nelle stanze e nei corridoi dell’hotel, e la progressiva perdita di controllo del protagonista, fino al drammatico finale. Elabora in maniera estremamente efficace la geniale storia ideata da King (enfatizzando soprattutto la patologia psichiatrica del protagonista, il quale, di fatto, personifica il “Male”), e mette in risalto gli aspetti paranormali che costituiscono poi il fulcro stesso del romanzo. Il film è un viaggio inquietante ed angoscioso nella psiche umana, e nelle sue labirintiche manifestazioni, ma anche la mirabile rappresentazione di come un nucleo familiare, apparentemente tranquillo, possa arrivare ad essere sconvolto dalla follia di uno dei suoi componenti. Per amplificare al massimo la tensione dello spettatore, Kubrick decise di utilizzare soluzioni di ripresa che – per l’epoca – erano raffinatissime e innovative. Basti pensare all’uso massiccio, per le scene che si svolgono negli enormi spazi comuni dell’albergo, della “steadycam”, e ciò con il preciso scopo – come rivelò poi lo stesso regista – di provare a “calare fisicamente” lo spettatore all’interno dell’Overlook Hotel. Oppure ai rapidissimi zoom che hanno l’obiettivo di esaltare, nella maniera più realistica possibile, la paura ed il disagio che appare sui volti dei personaggi.

Le storie (e le leggende) che sono legate alla produzione della celebre pellicola sono innumerevoli. Le riprese del film iniziarono nel maggio del 1978, e terminarono nell’aprile del 1979. Il regista, che era esigentissimo e perfezionista, sottopose la troupe e gli attori, per mesi, ad una pressione insostenibile. Capitava frequentemente che il copione subisse continui cambiamenti anche nella stessa giornata, rendendo tutti nervosi. Si girava anche per dodici, tredici ore al giorno, e le scene venivano spesso ripetute per decine di volte. Basti infatti pensare, ad esempio, che quelle ambientate nel bar dell’albergo (le quali sono tutto sommato piuttosto brevi rispetto alla lunghezza del film) durarono addirittura sei settimane. Dopo un’estenuante fase di montaggio, il 23 maggio del 1980, e quindi esattamente quarantacinque anni fa, “Shining” uscì finalmente nelle sale cinematografiche americane. In Italia, invece, bisognerà attendere il 22 dicembre dello stesso anno.

Il film è senza alcun dubbio da annoverare tra i più belli e significativi del Novecento, ed infatti è considerato, dopo “L’esorcista” (pellicola del 1973), il migliore film horror di sempre, ed è al 52° posto dei lungometraggi più belli di tutti i tempi. Eppure – sembra incredibile a dirsi – in un primo momento le reazioni della critica furono piuttosto freddine. Tanto è vero che Kubrick e la Duvall vennero addirittura candidati rispettivamente come “peggior regista”, e “peggiore attrice non protagonista” ai “Razzie Awards” (una sorta di “Oscar al contrario”) del 1981! A dire il vero, tra i principali critici dell’opera di Kubrick, ci fu proprio Stephen King; il quale non solo definì il film “freddo e distaccato”, ma disapprovò espressamente sia la caratterizzazione di Torrance (perché, diversamente da come avviene nel libro, mostra sin da subito il suo squilibrio mentale), che l’interpretazione della Duvall. Nonostante ciò, la pellicola, iniziò mano a mano a conquistare il gradimento del pubblico e degli addetti ai lavori, sino a diventare, col tempo, un vero e proprio “cult movie”.

Le ragioni che inducono a ritenere “Shining” come un vero e proprio capolavoro, sono molteplici. Kubrick, infatti, attraverso un’efficacissima elaborazione del geniale impianto narrativo che era stato ideato da King, una sceneggiatura costruita in maniera ineccepibile, un’attenzione maniacale per i dettagli, la scelta di un’ambientazione assai suggestiva, un cast praticamente perfetto ed una serie di colpi di scena rimasti memorabili, riesce ad inchiodare il pubblico alla sedia per oltre due ore, lasciando inoltre impresse, nella mente degli spettatori, immagini che sono entrate di diritto nella storia della Settima Arte.

Molti sono convinti che nelle scene, nelle scenografie e nei dialoghi del film, sia possibile rinvenire numerosi misteriosi ed inquietanti simbolismi, riferiti soprattutto allo sterminio degli indiani d’America, al genocidio nazista degli Ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale, ed al (finto?) allunaggio dell’Apollo 11, avvenuto ufficialmente nel luglio del 1969. Tali sospetti simbolismi sono stati evidenziati da Rodney Ascher in un documentario del 2012, intitolato “Room 237” (in omaggio alla stanza dell’Overlook Hotel dove si svolge una delle scene più famose della pellicola). Esso – quanto meno per alcune delle ricostruzioni esegetiche che pone in risalto – appare a dire il vero un po’ cervellotico, ma costituisce comunque un interessante e suggestiva interpretazione dell’intelligenza, dell’indubbia originalità e della famosa creatività di Stanley Kubrick. Quest’ultimo, a chi osò domandargli chiarimenti sui “segreti” nascosti di “Shining”, così rispose: «Odio che mi si chieda di spiegare come funziona il film, che cosa avevo in mente, e così via… spiegarli non ha senso, ha solo un superficiale significato culturale buono per i critici e gli insegnanti che devono guadagnarsi da vivere». Tale ostinato “ostracismo ermeneutico”, a dire il vero, era tipico del grande regista statunitense; il quale, infatti, dopo la “premiėre” del film (che nell’originale versione americana durava 144 minuti), e proprio con l’obiettivo di non fornire allo spettatore troppe informazioni narrative, decise di tagliare, per la versione definitiva, ben 25 minuti di pellicola.

A chi gli chiese di chiarire cosa avesse voluto mostrare al pubblico con la sua opera, egli disse: «C’è qualcosa di intrinsecamente sbagliato nella personalità umana… L’obiettivo fondamentale del fantastico non è cercare di spiegare o trovare spiegazioni chiare per quello che succede, bensì produrre mistero…Credo che l’unica legge valida per questo genere sia che non si debba cercare di spiegare o trovare spiegazioni chiare per quello che succede, e che l’obiettivo fondamentale sia di produrre nel pubblico una sensazione di mistero. La sensazione di mistero è l’unica che si vive con maggior intensità nell’arte che nella vita… C’è una parte malvagia. Una delle cose che le storie horror possono fare, è mostrare gli archetipi dell'inconscio; possiamo vedere la parte malvagia senza doverci confrontare con essa in modo diretto».

Pochi sanno che alcune delle riprese girate per i titoli iniziali di “Shining”, e più precisamente quelle che riprendono, dall’alto, la macchina di Torrance e della sua famiglia che percorre una tortuosa strada di montagna per arrivare all’Overlook Hotel, furono poi utilizzate da Ridley Scott come scena finale del suo famosissimo (e bellissimo) “Blade Runner”, del 1982. La produzione di quest’ultimo film non era soddisfatta del finale che il regista inglese aveva deciso di prevedere in sede di montaggio; lo riteneva infatti troppo cupo, e pretendeva una chiusura che fosse invece più ottimistica e “solare”.

Scott si mise quindi alla ricerca di una soluzione narrativa rapida, e per di più a basso costo, perché non aveva ulteriore budget a disposizione per realizzarla. Si ricordò allora che l’amico e collega Kubrick aveva filmato, per “Shining”, parecchie scene in esterna, e che queste potevano fare proprio al caso suo; ed allora decise di contattarlo: «Parlai con Stanley un po’ di volte, e gli dissi, so che hai girato per Shining ore di riprese dall’elicottero. Posso averne un po’? Il giorno dopo avevo diciassette ore di panoramiche. E così, alla fine di Blade Runner, ci sono le sequenze dirette da Stanley Kubrick». L’ennesima dimostrazione che, il cinema, è sempre in grado di regalarci innumerevoli, piacevoli sorprese.

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