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L'anniversario

Giacomo Matteotti e l’idea che non muore. Come la libertà

Cento anni fa l’omicidio per mano dei fascisti. La monografia dello storico Massimo L. Salvadori

l'antifascista giacomo matteotti

La copertina del libro di Massimo L. Salvadori

Cento anni fa, e precisamente il 10 giugno del 1924, venne brutalmente assassinato a Roma il deputato socialista Giacomo Matteotti. Per chi volesse approfondire la conoscenza del famoso uomo politico, nativo di Fratta Polesine, suggerisco volentieri la lettura di un saggio appena pubblicato da Donzelli Editore, a firma dello storico Massimo L. Salvadori, ed intitolato “L’antifascista – Giacomo Matteotti, l’uomo del coraggio, cent’anni dopo – 1924-2024” (184 pagine). L’interessante monografia ci offre l’occasione di approfondire i presupposti che condussero alla sua violenta morte e di comprendere, attraverso un utile rimando ad alcuni degli scritti dello stesso Matteotti, il suo pensiero politico e la sua appassionata ideologia. Figlio di agiati commercianti e proprietari terrieri, Giacomo «sentì la propria condizione come il frutto di un ingiusto privilegio, misurandola con quella opposta dei poveri braccianti e contadini che vedeva attorno a sé, occupati a guadagnarsi un difficile pane, e spesso a subire le angherie e le prepotenze dei padroni… reagì giovanissimo a questo stato di cose, diventando socialista».

Si laureò in Giurisprudenza nel 1907 e, dopo un’intensa frequentazione delle realtà politiche europee, nel 1914 partecipò al XIV Congresso del Partito Socialista fino a che, nel 1919, venne eletto deputato del parlamento italiano. Mandato elettorale che gli venne poi confermato sia nel 1921 sia nel 1924. Socialista convinto («…è un’idea che non muore, come la libertà!»), pacifista, estremamente rispettoso delle istituzioni, ma contrario al nazionalismo, e pervicacemente vicino alle posizioni delle classi lavoratrici, a causa del suo incrollabile idealismo e della sua “romantica visione” politica, entrò rapidamente in conflitto con il regime fascista di Benito Mussolini. E non solo… Osserva infatti, a tal proposito, Salvadori: «Era da un lato detestato dai fascisti e dall’altro dai massimalisti e dai comunisti che, a quel punto, erano giunti a disprezzarlo come un capitolardo postosi al servizio della borghesia e ad accusarlo di non comprendere che l’età in corso era pur sempre quella della rivoluzione socialista, e di essersi messo a patrocinare a difesa della democrazia borghese, e del Parlamento che ne era l’espressione istituzionale, un patto di collaborazione con tutte le forze disposte ad opporsi all’offensiva temporanea di un fascismo destinato dalla storia alla prossima rovina».

Ed infatti riteneva che «nessuna unità era pensabile con i comunisti che, come i fascisti, miravano a stabilire una dittatura negatrice delle libertà politiche e civili, e ridurre le masse lavoratrici in una posizione di minorità politica», tanto è vero che, scrisse, «…noi siamo per la libertà per tutti, dentro i limiti fissati dalle maggioranze… il fascismo trova nel suo avversario, che gli somiglia, un naturale alleato. Se il comunismo non ci fosse, il fascismo lo inventerebbe, poiché esso è il pretesto alla sua violenza e alla sua dittatura… i due sistemi oligarchici si giustificano e si “tengono” a vicenda». Questa sua “ingenua” onestà intellettuale, unita ad un incrollabile ed ammirevole coraggio, furono la ragione e la causa della sua prematura morte. Rammenta infatti Salvadori che «nel gennaio del 1921, alla Camera, Matteotti mise a nudo con chiarezza la natura del movimento fascista, le modalità violente e criminali con cui esso agiva, le complicità di cui palesemente godeva da quanti lo sostenevano alle spalle.

Il fascismo – disse – “è una organizzazione privata pubblicamente riconosciuta e nota” di bande armate “che dichiarano apertamente che si prefiggono atti di violenza, atti di rappresaglia, minacce, violenze, incendi”, in difesa dei padroni. Essa è, dunque, “una perfetta organizzazione della giustizia privata, ciò è incontrovertibile”». Nel marzo del 1923 ribadì il concetto, affermando infatti, senza giri di parole, che «la caratteristica del fascismo è la violenza sistematica, continua ed organizzata contro le cose e le persone». Ma fu dopo la tornata elettorale della primavera del 1924 che, a seguito nel suo celebre, ultimo discorso alla Camera del 30 maggio, si scavò, di fatto, con le sue stesse mani, la fossa: «L’elezione, secondo noi, non è valida… non voglio dilungarmi a descrivere i molti sistemi impiegati per impedire la libera espressione della volontà popolare… per queste ragioni noi domandiamo l’annullamento in blocco della elezione di maggioranza… noi deploriamo… che si voglia dimostrare che solo il nostro popolo nel mondo non sa reggersi da sé, e deve essere governato con la forza…».

Racconta Emilio Lussu, nel suo libro “La marcia di Roma e dintorni” che Matteotti, una volta finito il discorso, e dopo aver ripreso il suo posto sugli scranni dell’emiciclo parlamentare, «disse scherzosamente ai suoi amici: “Io il mio discorso l’ho fatto. Ora preparate il discorso funebre per me”. La stessa sera, Mussolini disse a un crocchio di partigiani, specialisti in rappresaglie: “Se voi non foste dei vigliacchi, nessuno avrebbe mai osato pronunziare un discorso simile”». Scrive Salvadori: «Nel pomeriggio del 10 giugno, Giacomo Matteotti venne rapito da una banda di cinque sicari, guidati da Amerigo Dumini, che, fattolo entrare in una macchina con la forza, sul Lungotevere Arnaldo da Brescia, lo assassinarono e ne abbandonarono il corpo in una boscaglia della campagna romana».

Le sue spoglie vennero ritrovate soltanto il 16 agosto. Ricorda ancora l’autore del saggio che Mussolini, il quale in un primo momento si era dichiarato totalmente estraneo alla vicenda, in occasione di un suo discorso alla Camera, il 3 gennaio del 1925, così, invece, testualmente, disse: «Dichiaro qui, al cospetto di questa Assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale e storica di tutto quanto accaduto… se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere. Quando due elementi sono in lotta, e sono irriducibili, la soluzione è la forza». Le reazioni ed i giudizi – politici e non – dopo la sua morte, furono di vario tipo. Lev Trockij, ad esempio, arrivò a dire che «la socialdemocrazia farà tesoro del sangue di Matteotti, così come la Roma antica fece del sangue di Cristo».

Filippo Turati, a sua volta, affermò che «dall’eccidio di Giacomo Matteotti la nuova storia d’Italia incomincia. A noi un solo compito: esserne degni… Lui temerario del coraggio. Lui che si fece volontario della morte… è il nostro eroe». Molto meno tenera fu invece l’opinione di Antonio Gramsci, il quale, probabilmente per le critiche che il grande politico veneto aveva dispensato verso l’ideologia comunista, lo definì, brutalmente, «un pellegrino del nulla». Comunque la si pensi, osserva Salvadori, «Matteotti intendeva il riformismo rivoluzionario come un aratro dalla lama tagliente, atta a rivoltare la dura terra per renderla capace di offrire una nuova e migliore semina, e di dare i frutti in grado di migliorare le condizioni, anzitutto dei più indifesi».

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