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Il compleanno

Zucchero Fornaciari. I settant’anni di un bluesman

L’infanzia felice ma anche i problemi economici. E quella chitarra che lo fece innamorare della musica. Dalle prime band a Castrocaro. E poi Sanremo, Festivalbar e i grandi palcoscenici internazionali

Zucchero Fornaciari. I settant’anni di un bluesman

Zucchero ieri sera all'Arena di Verona

Ieri, il cantautore emiliano Adelmo Fornaciari – in arte “Zucchero” – ha compiuto settant’anni. Lui stesso, in una sua interessante autobiografia, ha avuto modo di raccontare l’origine di quel curioso soprannome: «Ero un ragazzino molto educato, gentile, schivo, riservato… Fu la mia maestra delle scuole elementari… a cominciare a chiamarmi “zuccherino”… Questa cosa è andata avanti, ed ha contagiato anche mia madre. E da lì è nato Zucchero». Fornaciari è considerato uno dei più significativi personaggi della musica leggera italiana, avendo venduto, nel corso della sua lunga carriera, oltre cinquanta milioni di dischi, ed avendo lavorato con artisti del calibro di Miles Davis, Luciano Pavarotti, Sting, I Queen, Bono degli U2, Eric Clapton, Ray Charles, Joe Cocker, Solomon Burke, B.B. King, e Jeff Beck, solo per citarne alcuni.

Ebbe un’infanzia tutto sommato felice («Eravamo una famiglia bella e strana, molto unita, come quella dei fratelli Cervi, mezzadri qui vicino, a Campegine, a due passi da Roncocesi, una leggenda, una narrazione e un mito fondativo della mia terra. L’antifascismo, la Resistenza, i partigiani, la guerra, l’eroismo. Mio padre mi raccontava la loro storia nel tepore della stalla. Come una fola. Nelle sere d’inverno»), ma non certamente ricca («A casa c’era grande armonia, ma pochi soldi. Da bambino ero sempre affamato. Si mangiava pane e formaggio, la sera la zuppa. E volevo il dolce. Cosa c’è di dolce?, chiedevo. Ciocabèc. Mi immaginavo una meravigliosa torta o delle paste, annusavo il profumo del cioccolato o qualche altro aroma sconosciuto. Non arrivava mai nulla. Non capivo. In ansia pensavo: ma quando me lo dà sto ciocabèc? E non arrivava mai niente. Perché il ciocabèc (termine che sarebbe poi addirittura diventato il titolo di un suo album, ndr) altro non è se non il rumore che fa il becco della gallina beccando nel piatto vuoto, perché nel piatto non c’è nulla»).

Da adolescente, il giovane Adelmo, scoprì il fascino della musica («Prima di andare a scuola, la mattina, davvero prestissimo, correvo alla chiesa, prima che arrivassero i fedeli e qualche beghina. C’era un vecchio organo a canne con i mantici. C’è ancora. Don Tajadela m’insegnava l’abicì, un po’ di rudimenti, e persino un po’ di Bach. Toccata. E fuga verso la scuola. A due passi, era lì di fianco. Di corsa. Qui ho imparato a strimpellare l’organo. A orecchio. In cambio servivo messa, facevo il chierichetto… Mio padre, un giorno, a Reggio, cedette alle mie insistenze e si decise a comprarmi l’agognata chitarra. Ogni giorno dopo la scuola passavo a guardarla. Col cuore in gola, sperando che nessuno l’avesse comprata. Era una sottomarca, di un orrendo giallo ocra sfumato… Papà, papà, voglio quella! La costa, la costa, trop sold… Alla fine me la prese. Scoppiò l’amore. Per me era bellissima. La portavo anche a letto»).

Le prime esperienze musicali, i primi gruppi, le prime esibizioni, le prime composizioni (tra cui quella dedicata ad una provocante ragazza che si chiamava Vittorina). Ad un certo punto la sua famiglia si trasferì a Forte dei Marmi, e quella fu una svolta decisiva per il suo destino artistico. Dopo una lunga gavetta, nel 1981, vinse il Festival di Castrocaro. Negli anni successivi partecipò – in verità senza troppo successo – al Festival di Sanremo, piazzandosi infatti sempre nelle ultime posizioni della classifica. Nel 1986 decise di abbandonare le atmosfere pop che avevano sino ad allora caratterizzato la sua produzione musicale, abbracciando il rhythm & blues. Nacque così l’album “Rispetto”, che – anche in virtù di alcune prestigiose collaborazioni (ad esempio quella con Gino Paoli, per il brano “Come il sole all’improvviso”), e la hit “Donne” – lo fece finalmente notare al grande pubblico. Tuttavia, il successo arrivò l’anno dopo, con il suo celebre album “Blue’s”, grazie al quale vinse il Festivalbar, e vendette oltre un milione e mezzo di copie. Ancora meglio andò con la pubblicazione di “Oro, incenso e birra”, del 1989, del quale furono vendute, in tutto il mondo, oltre otto milioni di copie, di cui quasi due soltanto in Italia.

Zucchero è sempre stato un personaggio piuttosto particolare del panorama musicale italiano. Schivo di carattere, nasconde unbanimo profondamente irrequieto, con il quale – spesso – ha dovuto combattere nel corso della sua vita. Nella sua autobiografia racconta infatti che subito dopo il clamoroso successo di “Blue’s”, a causa della separazione con la prima moglie, dovette combattere con una grave forma di depressione durata più di tre anni. «Ci siamo sposati che io avevo ventitré anni e lei ventuno, siamo stati insieme sedici anni, ma lei non ha mai fatto pace col mio lavoro, sotto sotto ha sempre sperato, inconsciamente, che io non ce la facessi… Mi sono indebitato, per lei. Quattrocentocinquanta milioni di allora, e non avevo ancora una lira, anzi ero sotto di quaranta, dovevo ancora ricevere le royalties di Blue’s, ero nella merda… L’ho lasciata nella villa per cui mi ero impegnato e me ne sono andato. È stato il momento peggiore, il più buio, sono stato sei mesi in una specie di baracca senza cucina né cesso, per i bisogni andavo alla pensione di fronte, e il paradosso è che ero in cima alla classifica, che ero diventato famoso».

Le composizioni del cantautore di Reggio Emilia sono il frutto di un’abile ed efficace commistione sonora, che affonda le sue radici in contesti culturali estremamente diversi l’uno dall’altro («Ho creato una musica che ha il colore nero, e si apre nella melodia mediterranea… sarà la mia origine contadina, sarà quella pazza vocazione per la musica italiana corretta in salsa soul, ma di sicuro il meglio di me sprigiona dalla provincia, sana, autentica, bonaria e visionaria come un bicchiere di lambrusco di campagna… eppure tutta la mia storia è costruita sull’altrove, non sono mai stato dove avrei voluto essere»).

Dietro le sue canzoni, però, oltre all’inevitabile “ispirazione”, c’è sempre tanto impegno («Sono un impiegato della musica: entro in studio al mattino alle undici e ci sto sino all’ora di cena. Non sono di quelli che, fulminati da un raptus, trovano l’ispirazione nel cuore della notte. Faccio canzoni come un falegname farebbe un mobile, devo mettere le mani dentro la composizione musicale, e poi trovare le parole che stanno bene con la musica, perché le sillabe si trovino bene con la frase musicale che ho appena costruito. Lavoro come un artigiano… Ai miei manager lo dico sempre: sono un asino, I’m a donkey, ho bisogno della carotina, mi serve una sfida per andare avanti»). Coraggio, determinazione, e passione, insomma: «Tra la figa e la musica, ho sempre scelto la musica. Perché dopo un po’ la figa mi annoia. E poi la figa ti fa sempre delle domande. La musica, invece, ti può dare delle risposte. La figa vuole sempre qualcosa in cambio».

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