Spazio satira
Operazione Husky
21.07.2023 - 21:00
Nel luglio del 1943, e quindi esattamente ottant'anni fa, prese il via la cosiddetta "Operazione Husky", una campagna militare che costituì – di fatto – una specie di prova generale del ben più imponente "Sbarco in Normandia", che sarebbe iniziato il 6 giugno dell'anno successivo ed avrebbe definitivamente orientato le sorti del secondo conflitto mondiale. Le forze alleate, dopo aver vinto la sanguinosa "Guerra del deserto" in Africa, contro le truppe nazifasciste, decisero infatti di attaccare, da sud, il "ventre molle" dell'Europa, e ciò con l'obiettivo di creare un nuovo fronte bellico che non solo avrebbe dovuto dare una spallata decisiva all'oramai fragile resistenza militare italiana, ma avrebbe – anche e soprattutto – sottratto preziose risorse di uomini e mezzi alle potenze dell'Asse in vista del "D Day".
Nella primavera del 1943, dopo lunghe e tormentate valutazioni strategiche e logistiche, i comandi angloamericani decisero che il luogo ideale per effettuare lo sbarco era il sud est della Sicilia. E allora, al fine di riuscire ad avere a disposizione un'utile "testa di ponte" nel cuore del Mediterraneo, dapprima conquistarono Lampedusa, Pantelleria, Linosa e Lampione (perfezionando così la cosiddetta "Operazione Corkscrew"), e poi puntarono decisamente al "bersaglio grosso".
Lo sbarco iniziò alle prime luci dell'alba del 10 luglio, e complice una (tutto sommato) modesta opposizione bellica delle truppe italo-tedesche stanziate sull'isola, proseguì poi senza grossi ostacoli nei giorni successivi. Tanto è vero che, neanche due mesi dopo, un'Italia allo stremo accettò di firmare il famoso "Armistizio di Cassibile", che di fatto decretò la caduta del regime dittatoriale di Benito Mussolini.
Campagne militari di quella portata e di quella complessità necessitano sempre di un'imponente e dettagliata preparazione, che è spesso basata su propedeutiche attività di intelligence, che hanno in genere il compito di "preparare il terreno" all'invasione, sfruttando – laddove possibile – l'eventuale collaborazione della popolazione civile.
Secondo alcuni storici il successo della "Operazione Husky" venne agevolato da esponenti mafiosi italoamericani, i quali sarebbero stati preventivamente contattati dai comandi statunitensi per creare utili sinergie. Dapprima solo operative. Ma poi, una volta che venne conclusa la conquista dell'isola, anche politiche, economiche e sociali. Molti libri sono stati scritti su questo scivoloso argomento. L'ultimo è quello appena pubblicato da Salvatore Lupo, il quale ha infatti da poco consegnato alle stampe, per la casa editrice Donzelli, un breve ma documentatissimo saggio intitolato "Il mito del grande complotto – Gli americani, la mafia e lo sbarco in Sicilia del 1943" (112 pagine).
Lo storico senese – che è considerato uno dei maggiori esperti in tema di mafia e fascismo – ritiene tuttavia che «...non è vero che lo sbarco in Sicilia delle armate statunitensi e britanniche, l'operazione Husky del luglio 1943, venne realizzato grazie a un preventivo accordo con la mafia, e tanto meno che le armate alleate trionfarono sui loro nemici in forza di quell'accordo. Nessuna fonte attendibile avalla questa narrazione, che possiamo chiamare del "grande Complotto", per quanto fortunata sia e sia stata nel dibattito pubblico.
Però è vero che, nella fase precedente e in quella successiva all'operazione, sul proprio suolo e su quello siciliano, l'America in guerra assunse un atteggiamento tollerante nei confronti delle due mafie». Lupo rammenta che questa errata convinzione trovò le sue radici in un articolo a firma di Michele Pantaleone, apparso nel 1958 sul quotidiano palermitano "L'Ora". Convinzione che poi acquisì ulteriore corpo, e si diffuse, quando qualche anno dopo lo stesso giornalista siciliano pubblicò anche il saggio "Mafia e politica".
Secondo Pantaleone i servizi di sicurezza statunitensi, nel corso del 1942, contattarono il boss mafioso Salvatore Lucania (meglio conosciuto come "Lucky Luciano", il quale era all'epoca in prigione negli Stati Uniti per scontare una lunghissima pena detentiva), chiedendogli di aiutarli a programmare ed organizzare l'invasione.
Il giornalista siciliano era convinto quindi che «...i mafiosi parteciparono direttamente alle operazioni militari alleate, e dal canto loro i militari italiani abbandonarono le loro posizioni, sempre grazie all'intervento pressante di "autorevoli amici", di modo che le truppe di occupazione potessero avanzare nel centro dell'isola con un notevole margine di sicurezza». A dimostrazione di ciò – per Pantaleone – sarebbe il fatto che lo stesso Luciano venne scarcerato ("per gratitudine", senza tuttavia averne diritto) dalle autorità americane nel 1946, quando fu infatti espulso, e "spedito" in Italia.
Lupo tuttavia ritiene che tali apodittiche affermazioni siano basate esclusivamente su poco affidabili "si dice", e a tal proposito afferma, in maniera estremamente convinta e netta, che «...a questo riposizionamento interpretativo contribuiva una coeva maturazione dell'oggetto storiografico mafia: che portò gli studiosi più rigorosi a tenersi lontani da raffigurazioni caricaturali, o peggio apologetiche, di una superpotenza criminale che tutto controlla e sempre trionfa, nella fattispecie capace di fornire un contributo sostanziale al gigantesco evento che – dopo Stalingrado e prima della Normandia – segnò una svolta nella guerra europea e quindi nella storia mondiale».
L'autore del saggio ad ogni buon conto ammette tuttavia che la presenza della malavita organizzata nella Sicilia dell'epoca fosse comunque rilevante, e questo perché l'efficacia delle iniziative che erano state adottate dal prefetto Mori, il quale era stato inviato nell'isola da Mussolini per arginare il fenomeno mafioso, in realtà avevano avuto un effetto tutto sommato marginale, e quasi esclusivamente "di facciata", tanto è vero che in un rapporto stipulato dalle autorità interprovinciali di Pubblica Sicurezza nel 1938, veniva chiaramente evidenziato che «la mafia, con l'operazione Mori... fu sfrondata, potata, quasi intaccata al tronco, ma la base e le radici rimasero intatte, perché costituite dai cosiddetti "stati maggiori" ormai notoriamente composti da professionisti, titolati e da individui, in genere, di elevata classe sociale... il rapporto mostrava come i mafiosi, soprattutto dell'area palermitana, man mano che uscivano di prigione, e tra un periodo di confino e l'altro, tornassero a gestire imprese, in generale a occuparsi dei propri affari, e si impegnassero in nuove guerre intestine.
Gli studi hanno dimostrato quanto lievi fossero, nei processi di periodo fascista, le condanne inferte in quel luogo strategico delle relazioni mafiose, che era stato e sarebbe stato il terreno della loro più pericolosa riproduzione attraverso il tempo. Pensiamo ragionevolmente che nel 1942 la mafia fosse indebolita, rispetto al prefascismo. Non possiamo però continuare a immaginare che sia d'un tratto "ricomparsa" nel 1943 sul suolo siciliano, e sia stata "ricostituita" ad opera delle autorità americane, grate per la sua (presunta) collaborazione agli eventi bellici...».
Aggiunge ancora Lupo: «Gli agenti segreti. Potrebbe sembrare logico che gli Alleati ne abbiano infiltrati nell'isola prima dello sbarco... La documentazione archivistica oggi disponibile, però, sembrerebbe escluderlo». Ed infatti cita, ad esempio, un memorandum americano top secret del 16 agosto del 1943, che così riferiva: «Prima dell'invasione della Sicilia non era stato possibile costruire un'organizzazione [spionistica] all'interno dell'isola, in parte perché i reclutamenti erano difficili da effettuare, ma più precisamente perché l'infiltrazione e il mantenimento di agenti era un problema insuperabile su un territorio così piccolo, così attentamente sorvegliato, e così lontano dalle basi alleate... Questo era largamente dovuto a una mancanza di contatti».
Lo storico toscano sostiene che ad alimentare ulteriormente l'ipotesi del "grande complotto" fu anche la relazione stilata dalla Commissione Antimafia italiana del 1976, che «si fece carico di trasformare il mito in verità ufficiale. Qui, in tempi di compromesso storico, la classe politica (isolana e nazionale) trovò opportuno insistere sulle colpe remote di un soggetto "straniero", anche per mettere in secondo piano i gravissimi e ben più durevoli fattori interni che avevano assicurato (assicuravano) la perpetuazione del fenomeno mafioso, anche per autoassolversi dalla propria responsabilità».
Ricostruzione, questa appena richiamata, che poi venne sostanzialmente fatta propria anche da una successiva commissione d'inchiesta, varata nel 1993.
In una recentissima intervista il giornalista senese ha spiegato che, attraverso quel documento del quale tuttavia non condivide le conclusioni, «si doveva spiegare come la mafia, considerata come un fenomeno arcaico, avesse trovato terreno fertile nel dopoguerra.
E nel 1976, in tempi di avvicinamento tra Democrazia Cristiana e Partito Comunista Italiano, tornò comodo trovare una comune verità compromissoria, scaricando la colpa su un complotto straniero. Così, una mera ripetizione liturgica di ragionamenti sbagliati e informazioni errate, è diventata patrimonio delle istituzioni repubblicane. Del resto anche gli americani in precedenza avevano attribuito lo sviluppo del crimine organizzato a una trama di origine straniera».
Secondo Lupo, quindi, non ci sono prove che le armate alleate sbarcarono in Sicilia, nel luglio del 1943, forti di un accordo pregresso con "Cosa Nostra". Vero è invece che, dopo la conquista dell'isola, quando fu il momento di dover organizzare la gestione complessiva dei territori occupati con soggetti che dovevano essere lontani dalla classe politica fascista, la quale aveva comandato sul territorio fino a poco tempo prima, «...in più di un'occasione la scelta cadde sul boss della mafia locale o sul suo braccio destro, che in alcuni casi si era perfezionato in un ambiente mafioso americano».
Ed infatti – evidenzia sempre Lupo – Massimo Ciancimino (padre del più famoso Vito...) ebbe modo di ricordare «...il modo in cui l'ascesa della famiglia poté valersi dei buoni uffici dell'AMG: mio nonno si chiamava Giovanni ed era emigrato negli Stati Uniti, da dove era dovuto ritornare in seguito... All'inizio la sua famiglia non navigava nell'oro: la svolta sarebbe arrivata con lo sbarco degli americani, quando a mio nonno – a Corleone forse l'unica persona in grado di parlare inglese – fu offerto il ruolo di interprete del comando alleato... I rapporti con gli americani gli consentirono di riprendere l'attività di import-export interrotta durante la guerra. Tutto ciò cambiò la vita di mio padre, perché i guadagni furono così considerevoli da permetterne l'impiego in attività imprenditoriali importanti».
Tale situazione, che creò quindi nuove, stringenti commistioni tra mafia e politica, determinò di fatto un cambiamento importante nelle stesse dinamiche operative criminali. Le quali, da semplici, elementari, e tipicamente "bandistiche" quali erano state (prevalentemente) fino ad allora, iniziarono a trasformarsi in attività illecite ben più sofisticate, ed economicamente molto più remunerative. Ma questa è tutta un'altra storia...
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