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L'intervista

Le guerre di Piero. E lo sguardo sul mondo

Pomponi per anni ha raccontato i conflitti in Africa e in America. Fotoreporter, oggi dipinge e realizza sculture. Ma la valigia è sempre pronta

Piero Pomponi

Piero Pomponi al lavoro nel suo studio FOTO MASSIMO SCACCIA

È partito che aveva solo diciotto anni. Un ragazzino. Si è tuffato nella fotografia, abbandonando tutto e tutti accompagnato dalla sua Hasselblad, fedele compagna. Disciplinato, concentrato , curioso, audace. Come free lance, fotoreporter per giornali importanti, ha immortalato e filmato i conflitti di mezzo mondo, le guerre in Africa e in America del Sud, ha fotografato quello che accadeva sul fronte. Ha visto morire i soldati, ha visto la gente scappare. Ha cominciato la sua produzione fotogiornalistica con testate italiane ed internazionali: Corriere della Sera "SetteMagazine", La Repubblica, Il Venerdì, L'Espresso, Panorama, Il Manifesto, Paese Sera, giusto per citarne alcune.

Ha intuito ben presto che la sua vocazione, oltre a quella fotogiornalistica, era collegata strettamente a una visione chiara dell'antropologia e dell'etnologia. Il suo continuo peregrinare lo ha portato in Angola, Zaire, Sudan, Sierra Leone, Guinea Conakry, Mozambico, Sud Africa, Rwanda, Burundi, Uganda, Tanzania, Malawi, Zambia, Senegal, Mali, Somalia, Thailandia, Laos, Birmania, India, Bangladesh, Pakistan, Afghanistan, Stati Uniti, Nicaragua, El Salvador, Guatemala, Messico, Ecuador, Perù, Brasile, Bolivia e Colombia.

È proprio in Colombia che ha deciso di trasferirsi in forma permanente nel 1996, lavorando con The New York Times, The Chicago Tribune, The Washington Post, Time Magazine e Newsweek International e producendo numerosi reportage esclusivi sulla guerra al narcotraffico e il conflitto tra i gruppi fuorilegge ed il governo colombiano. Colpi di stato, terremoti, epidemie di colera, inondazioni, narcotraffico, gli indios della foresta amazzonica.

È difficile parlare di Piero Pomponi. C'è un'amicizia che ci lega da sempre, un rapporto forte nonostante le migliaia di chilometri di distanza, nonostante spesso il telefono squillasse senza avere risposta. E non avevo assolutamente idea di cosa fare con quegli appunti, così tanti, così diversi.
Negli ultimi tempi, invece, ogni volta che l'ho incontrato mi ha stupito con la sua nuova attività, un'infinita varietà di opere pittoriche, sculture e disegni davvero sorprendenti. E poi maschere e disegni in punta di matita. Cerco quindi di farlo parlare "del mondo", di quello che visto, delle sue emozioni, dei viaggi. E di tutto quanto è accaduto nel corso di questi quarant'anni, della vita, della morte, della guerra. Ecco, la guerra...

«La guerra non finirà mai – dice – Esiste anche la guerra di pensiero. Esiste la droga, il narcotraffico, e poi ovviamente le armi di distruzione. Io ho vissuto nei Paesi dove la povertà, le sparatorie tra guerriglieri e paramilitari erano, e sono purtroppo, all'ordine del giorno. Case spazzate via e libertà violata. Pensare alla pace è un processo lungo, purificarsi sarebbe la parola d'ordine ma è difficilissimo. Troppi interessi. La guerra è quasi sempre per il potere. Non possiamo fare a meno di tutti i prodotti derivati per l'economia e le multinazionali vanno avanti fregandosene ampiamente anche del problema ambientale che ovviamente con questi, che sono problemi di sopravvivenza enormi, rischia di restare irrisolto per sempre. In guerra la verità è la prima cosa che muore».

Piero è un pacifista. Sì, la guerra l'ha vista, l'ha toccata, l'ha raccontata. E oggi potrebbe essere tranquillamente un mediatore internazionale (parla almeno cinque lingue fluentemente).
 «I ricordi primari sono quelli del fischione che si sente partire da lontano non appena sei sul campo e poi tutto ciò che si compie. La paura è tanta. Ma impari anche a controllare l'adrenalina che ti esalta e ti fomenta e non lasciarsi andare è veramente complicato. Si rischia grosso e i costi sono altissimi. Oggi si filma con un telefonino, e anche questo è il segno di come siano cambiati i tempi. Io ho fatto più di 800.000 fotografie, i veri fotogiornalisti non ci sono più. Quando ricevette il Nobel per la letteratura, Gabriel García Márquez disse: "Ho visto oppressione, torture, abbandono, carestia e pestilenza ma neppure la guerra eterna attraverso i secoli è riuscita a ridurre lo svantaggio tenace della vita sulla morte"».

Marquez è stato uno dei personaggi e dei protagonisti assoluti del 900 che hai conosciuto. E ne hai conosciuti e frequentati molti...
«Tutti mi hanno insegnato qualcosa, Ryszard Kapuscinski innanzitutto. Il bello di avere a che fare con menti in fermento è che ti abituano a cercare di fare e ragionare allo stesso livello. Ma quando abbassi la guardia ti rendi conto che è dura e sconti tutto. In un certo senso la vita è un bluff, io mi sono salvato, e questo è il mio risultato».

«A parte la sua denominazione geografica l'Africa non esiste». Così scrivesti nell'incipit del volume "I bambini di Kinshasa" (Pulp edizioni)...
«L'Africa è completamente libera, non esiste l'ufficio imposte, non esiste la luce, se ti serve qualcosa la chiedi a qualcuno e te la danno. La magia la avverti quando ci vivi e come nel mio caso, per esempio se tua madre sta male, non la puoi chiamare perché non esiste il telefono, non c'è nulla di tecnologico in Africa. La libertà è assoluta, si cammina nudi, si ha una tigre in casa, la principessa va a spasso. Io sono "nato" in Tanzania e ci tornerò perché così il cerchio si chiuderà».

Dopo questo lungo e impertinente girovagare oggi appari diverso. O forse è soltanto una suggestione. C'è un po' di malinconia?
«No, spesso quando sono costretto a lunghi periodi di esilio in casa le cause sono quasi sempre dovute a motivi di salute. Sono cagionevole e malgrado mi sia salvato tante volte sono sul filo del rasoio perennemente. Il mio fisico è stato molto sfruttato. Ma esiste solo l'inferno in questa vita perché non esiste né purgatorio né paradiso: purtroppo credo che non incontreremo proprio nessuno dopo la morte».

La fotografia è stata la tua passione, la tua vita. Oggi dipingi, realizzi sculture. Come nasce tutta questa dedizione all'arte?
«Sicuramente c'è qualcosa di familiare. Mio nonno era il guardiano del cimitero di Trevi nel Lazio, era uno scultore e un artista noto per aver creato un pagliaccio alto dieci metri. Con quello che realizzo voglio raccontare emozioni, parlare di ricordi, di incontri ma anche di sogni, manie,  lacrime,  fragilità che sfociano in sfumature, colori, sfregi, pennellate. Innumerevoli pezzi di quella sottile membrana che chissà dove si nasconde nella mia testa. Mi piace, mi diverte, mi fa stare bene. È quello che voglio fare adesso. Ho persone che mi seguono. Che mi apprezzano. E poi mi piacerebbe finire il lungometraggio "La morte in Atacama"».

Piero si alza, accende una sigaretta. Aspira lentamente. E torna ai suoi lavori, alle sue carte, ai suoi bozzetti. Impossibile pensare cosa gli stia passando per la testa. E questa, forse, è la cosa più affascinante. Quella che lo rende veramente unico.

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