Spazio satira
Teatro
18.06.2025 - 15:00
In una delle primissime puntate di questa rubrica – precisamente quella dell’8 febbraio 2023 – raccontai del valore artistico del sorano Ubertino Carrara, tra i primi ad essere ammesso nell’Accademia dell’Arcadia, il quale fu un poeta epico latino apprezzatissimo al suo tempo. Basti pensare all’eco che per lunghissimo tempo ebbe il suo capolavoro – il “Columbus” – apparso originariamente a Roma nel 1715, in cui viene narrata, alla maniera dei poeti epici antichi, la scoperta dell’America.
In particolare quell’antica puntata era incentrata su un poco noto dramma sacro intitolato “Samson vindicatus”, che venne cantato – si trattava infatti di un oratorio, cioè di un componimento musicale, eseguito come concerto, che si distingue dall’opera lirica vera e propria, dal momento che non prevede una rappresentazione scenica o personaggi in costume – nel marzo 1695 presso il Sacello dell’Arciconfraternita del Santissimo Crocifisso a Roma.
Il dotto gesuita sorano fu con ogni probabilità l’autore di un’altra opera manoscritta, che ho rintracciato presso l’Archivio della Pontificia Università Gregoriana: il “De Arte Poetica”. Sul chiarissimo interesse dell’arte poetica per il mondo teatrale mi sono soffermato varie volte, atteso che da Aristotele e Orazio in poi molti letterati si sono cimentati con la redazione di manualetti sul “come” si compone un’opera poetica (in particolare tragica), e quali sono i requisiti per raggiungere un’ideale perfezione stilistica e tematica.
Il volume manoscritto che contiene questa “Poetica” – che non reca alcuna data al suo interno, ma, in modo piuttosto contraddittorio, ha sul dorso il titolo aggiunto (e chiaramente sbagliato) di “Rhetorica” – è però stimabile in un periodo compatibile con le date della biografia di Ubertino, che visse tra il 1640 e il 1716. L’intera opera – continuamente disseminata di esempi pratici tratti dalle opere di poeti dell’antichità come Virgilio, Orazio, Lucano, di tanto in tanto offrendo anche delle traduzioni in “vernacula lingua”, ma anche un po’ meno antichi come Petrarca, e quasi contemporanei come Jacopo Sannazzaro e Torquato Tasso – è divisa in tre libri: “Primus De Arte Poetica”; “Secundis De Ornamentis Poeticae Artis”; e “Tertius De Singulis Poeticae Speciebus”.
L’autore apre la sua trattazione con un “proemio” nel quale illustra gli scopi che si prefigge con questa opera: vuole offrire ai lettori (cioè probabilmente i suoi discepoli alla scuola del Collegio Romano, dove era professore dopo esperienze di insegnamento a Macerata e a Siena) un «illuminante trattato in tre libri». Infatti, nel primo capitolo si sofferma sull’origine della poesia (che, come volevano Aristotele e Orazio, discendeva dalla “mimesis”, cioè dall’imitazione), e sul suo fine (anche qui, concordemente ai due illustri predecessori, Carrara dice che il fine della poesia è “delectare”). Poi affronta la questione della forma poetica, che dev’essere “verosimile”: anche il concetto di verosimiglianza è desunto dalla filosofia di Aristotele.
Nel secondo capitolo, che è quello più ricco di informazioni e dettagli pratici, il Carrara si sofferma sui vari modi e i vari espedienti di abbellimento della poesia, illustrando la maniera più corretta per esprimere, appunto verosimilmente, le emozioni e le passioni, soprattutto l’odio e l’amore. Perciò spiega dovizia di particolari l’uso delle varie arguzie, delle similitudini, degli epiteti, che possono essere impiegati per una maggiore presa emotiva sui lettori (o spettatori).
Infine, nel capitolo conclusivo, passa in rassegna le singole forme poetiche, a cominciare dall’epopea e per finire alle egloghe. Si sofferma molto – e non poteva essere diversamente vista l’importanza del teatro nella sua epoca – sulla “fabula poetica”, cioè appunto sul dramma teatrale. Riguardo a quest’ultimo, Carrara, che, al pari di come fa Aristotele nella sua Poetica, parla in particolare della tragedia, ribadisce che si tratta di un’imitazione di azioni eroiche. È chiara la differenza con la commedia nella quale i personaggi sono di estrazione popolare e quindi incompatibili con quegli slanci eroici tipici dei personaggi tragici.
Poi passa in rassegna le proprietà che deve avere la tragedia: imitazione verosimile, divisione in episodi, ammirevolezza dei caratteri. E, riguardo a quest’ultimo punto, dedica una sezione apposita alle caratteristiche che devono avere gli “eroi” delle tragedie.
È bene precisare che il manoscritto non esplicita in nessuna parte il nome dell’autore. Perciò ci si potrebbe chiedere perché venga attribuito al gesuita sorano. La questione è presto risolta: abbiamo detto che spesso e volentieri Carrara cita degli esempi pratici per meglio far comprendere determinate affermazioni teoriche. Ad un certo punto, mentre sta parlando degli ornamenti poetici, cita un poema in onore di Luigi Gonzaga – appunto dicendo che si tratta di un’opera propria, scritta qualche tempo prima. Sono, altrettanto fortunosamente, riuscito a rintracciare il manoscritto dell’elegia a cui Carrara fa riferimento (intitolata “Lex nova: ne moriatur amans prohibetur amare”), recuperando, insieme con essa, altre due composizioni latine inedite dello scrittore.
Per chi volesse saperne di più, il manoscritto del “De Arte Poetica” di Ubertino Carrara è, come detto, conservato presso l’Archivio della Pontificia Università Gregoriana, con la collocazione APUG 1257. Invece, una biografia del gesuita sorano si può leggere (liberamente scaricabile da Google Libri) nel terzo volume delle “Notizie istoriche degli Arcadi morti”.
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