Cerca

Su il sipario

La giostra della bufala

Dalle venationes romane alle usanze locali. La lunga storia di un rito popolare. Anagni, Pofi, Alatri e Ceccano: nelle feste di paese la violenza diventava spettacolo collettivo

La giostra della bufala

La dimensione popolare del teatro ottocentesco è stata oggetto di diverse puntate di questa rubrica. Avvalendomi della guida fornita dall’opera del letterato livornese Giovanni Targioni Tozzetti – il “Saggio di novelline, canti ed usanze popolari della Ciociaria”, pubblicato nel 1891 – questa volta racconterò della giostra della bufala, suggestivo spettacolo particolarmente teatralizzato e di grande presa sul pubblico, che affonda le sue radici più antiche nelle venationes che avevano luogo negli anfiteatri romani (secondo altri studiosi influenza ebbero anche i riti di mietitura legati alla dea Demetra).

Per esempio, la giostra era particolarmente apprezzata ad Anagni, città nella quale, secondo una testimonianza di Alessandro de Magistris (“Istoria della Città e S. Basilica Cattedrale d’Anagni”, Roma 1749), l’organizzazione risalirebbe addirittura al medioevo.
All’epoca veniva chiamata nello Statuto con il nome di “caccia” o “ambagia”. Pur non esistendo testimonianze documentarie specifiche sulle modalità di svolgimento della giostra, si sa da alcuni dispacci delle Guardie Civiche risalenti alla metà dell’Ottocento che l’animale veniva legato con corde alle corna e trattenuto dai giostratori, che spesso rimanevano feriti. Altra tradizione anagnina legata ai bufali era quella di farli correre in occasione delle festività patronali, così come avveniva per i cavalli. Nel 1568 l’ebreo Vitale aveva speso per conto del Comune la somma di “scudi uno palia recepta et empta ab eo per bufalos et asellos”. L’usanza, secondo il racconto del de Magistris, persisteva ancora a metà del Settecento.

Targioni Tozzetti – che aveva lungamente insegnato nel liceo di Ceccano – nel suo libro racconta la versione ceccanese della giostra, che si svolgeva ai primi di luglio. A Pofi, dove la giostra si svolgeva con modalità simili a quelle di Ceccano (ma il bufalo veniva acquistato a Priverno), la “caccia” avveniva nella terza decade di agosto. Scrive l’autore: «Non si preparano steccati, né palchi, né posti speciali per assistere alla festa, né si addomestica l’animale, né si adorna con fiocchi o con nastri. Tutt’altro». Il giorno convenuto, alcuni uomini, guidati (un po’ di malavoglia) da un tal beccaio Alessandro, si recarono a Giuliano per acquistare un bufalo. Imbrigliatolo con delle corde e condottolo a Ceccano – non senza fatica visto che l’animale non era ovviamente pacifico – lo si chiudeva, tra il festante clamore della folla radunata nella piazza, in un recinto fatto apposta per lui.

Continua Targioni Tozzetti: «Chiuso il cancello di quella stalla improvvisata, i caporioni della giostra (designati col nome di “Caposardi”, cioè, che tengono la corda) stabilirono l’ora della corsa: le tre, dopo pranzo […]. All’ora indicata una folla di curiosi, urlando e fischiando, si accalcava innanzi al cancello, dietro il quale il bufalo guardava sospettoso, mentre i monelli i facevano a gara ad aizzarlo, tirandogli la fune, punzecchiandolo con dei bastoni, sputandogli sul muso». Il bufalo, infastidito da quelle molestie, dava segni di nervosismo cercando di abbattere il cancello che lo teneva rinchiuso.

Finalmente arrivava il “caposardo” con la chiave per aprire il cancello; e mentre i meno coraggiosi si tenevano ad una certa distanza dal recinto con l’animale ormai furioso; poi, quello veniva liberato e cominciava a correre all’impazzata. I più decisi a divertirsi cominciavano a tirare le funi per dirigere la corsa del bufalo, che, malgrado la forza e la rabbia, era comunque sposato perché non aveva né mangiato né bevuto per tutto il tempo. E infatti spesso nel corso della giostra lo si doveva far riposare per far sì che il divertimento non finisse subito. Poi, per aizzarlo, gli battevano sul muso una pelle di capra. Così ricominciava la corsa dell’animale dietro a qualcuno dei “caposardi”, che per cercare scampo si buttava dietro una siepe o dentro una casa.

Qualcun altro cercava di salire in groppa all’animale, venendo disarcionato tra le risate degli amici. Legatolo di nuovo e irritatolo con dei peperoncini infilati nelle narici, il bufalo riprendeva fiato. Intanto un altro “caposardo” portava un mezzo tronco d’albero (il “runcroccu”), mettendolo in mezzo e cercando di vestirlo con una giacca e un cappellaccio per dargli l’aspetto di uno spaventapasseri. Liberato dalle funi, l’animale si avventava contro il tronco vestito. La cosa veniva ripetuta varie volte, finché sfinito dalla fame e dalla sete, il bufalo viene lasciato in pace. Il giorno dopo tutto viene ripeteva davanti a pochi spettatori.
«Poiché – scrive Targioni Tozzetti – la giostra è fatta unicamente per riscaldare la carne del bufalo, che altrimenti non sarebbe mangiabile, verso le nove la bestia martoriata vien condotta all’ammazzatoio». La sua carne veniva poi venduta dal beccaio.
La giostra della bufala si svolgeva fino alla metà dell’Ottocento anche a Frosinone. Presso l’Archivio frusinate sono stati trovati alcuni documenti, redatti in occasione della stima dei danni arrecati alle persone e alle cose, in occasione della giostra avvenuta durante la fiera della Madonna della Neve nell’agosto del 1832.

E anche ad Alatri vi era sicuramente una tradizione di “giostre”. Una notizia ritrovata nell’archivio storico della città ernica ci informa che nel 1879, sollecitato dalla Sottoprefettura di Frosinone che chiedeva notizie riguardo alla “giostra del bufalo” (per eventualmente poter approntare idonei servizi a tutela della pubblica incolumità), il Sindaco dell’epoca, Bellincampi, replicava: «Assicuro la S.V. che da circa un 13 anni orsono in questo Comune non si è mai più tenuta la giostra del Bufalo».
Per chi volesse saperne di più, il “Saggio di novelline…” si trova gratis su internet.

Edizione digitale

Sfoglia il giornale

Acquista l'edizione

Ultime dalla sezione