L'intervista
27.09.2025 - 13:00
Gennaro Di Napoli
Nato a Pozzuoli ma ormai ciociaro d’adozione, Gennaro Di Napoli è l’omonimo di un grande campione dell’atletica leggera ma è stato anch’egli un campione, di una disciplina un po’ meno nota, il tennistavolo. Per dieci anni tra i primi quattro nel ranking italiano di questo sport, è stato campione italiano di doppio e due volte campione italiano a squadre con la maglia del CTT Ferentino. Oltre 100 le sue presenze in nazionale e tanti allori a livello giovanile e seniores.
Gli chiediamo anzitutto di spiegarci come e perché mai, in una nazione “calcio-dimensionata”, abbia deciso di praticare il tennistavolo a livello agonistico…
«C’era un’associazione cattolica a Pozzuoli, mia città natale, dove parecchi ragazzi praticavano il tennistavolo. Cominciai così, come tutti, per gioco, ma nell’80, a soli 11 anni, arrivai alla finale nazionale dei Giochi della Gioventù, a Monza, perdendo in finale da Lorenzo Nannoni, che aveva un anno più di me, e che avrebbe poi svolto un percorso sostanzialmente parallelo».
Anche nel campionato a squadre la tua storia inizia con il Pozzuoli?
«Sì, ho iniziato a giocare nelle categorie più basse con il Pozzuoli ma già nell’83 sono stato chiamato dal Torre del Greco per giocare in B2 e in B1. Il definitivo salto di categoria e l’ingresso nel tennistavolo d’élite è avvenuto però nell’85, quando con il Sorrento ho giocato in serie A2 e in nazionale giovanile, insieme a Nannoni e Manneschi».
E in nazionale giovanile ti prendi subito grandi soddisfazioni?
«Sì, ai campionati europei categoria Allievi, in squadra con Nannoni e Manneschi, ho vinto la medaglia d’argento. La consapevolezza di esser vicecampioni d’Europa ci ha portato a riflettere sul fatto che per tutti noi il tennistavolo potesse davvero diventare una professione».
Arriviamo all’87, quando frequenti il Centro Federale di Fiuggi e devi scegliere la tua nuova squadra. Come e perché opti per il Ferentino?
«Sembrava che la destinazione più probabile dovesse essere il Latina, che era un altro club in ascesa nei campionati a squadre, ma Vittorio Collalti, Peppe Leoni e Bruno Giorgi mi convinsero della bontà del progetto ferentinate e così cominciò la mia lunga storia ciociara, visto che da ormai 40 anni vivo qui».
Una carriera ricca di successi, individuali e a squadre. Quali ricordi con più affetto e partecipazione emotiva?
«Naturalmente i due scudetti conquistati con il Ferentino hanno un posto speciale nel mio cuore e devo dirti che, senza situazioni extra campo che condizionarono e penalizzarono la nostra squadra, avremmo potuto mettere in bacheca almeno altri due titoli tricolori. Qualche mio compagno di squadra non ebbe un atteggiamento troppo professionale in occasione di un paio di finali perse, ma nello sport le recriminazioni non contano e non vanno agli archivi. Resta però il bellissimo ricordo di una cittadina impazzita di gioia e di un pubblico che arrivò persino a 7-800 persone nei nostri incontri casalinghi».
Sei stato anche campione italiano di doppio?
«Sì, sono stato campione italiano sia nel doppio maschile che nel doppio misto, mentre in singolare sono arrivato una volta secondo e otto volte terzo. Ho inoltre vinto due medaglie ai Giochi del Mediterraneo, in Siria e ad Atene».
Il tuo rimpianto sportivo più grande?
«Senza dubbio quello di non aver vinto il titolo in singolare, pur essendo arrivato tantissime volte in semifinale».
Molti in Italia ritengono ancora il tennistavolo un giochino da porre nel giardino della villa al mare o nella sala parrocchiale. In alcuni paesi d’Europa ci sono invece super-professionisti e tutti sanno quanto sia duro eccellere in questa disciplina.
«Come ogni altro sport per emergere occorre un combinato disposto di talento e allenamenti. Se sei particolarmente talentuoso possono bastarti quattro ore al giorno, diversamente devi spenderne sette o otto. Ma nessuno, neanche il giocatore più baciato dal talento, può prescindere da un duro allenamento quotidiano».
Chi sono gli avversari più prestigiosi con i quali ti sei confrontato?
«Ovviamente tra i confini italici ho giocato con tutti i pongisti più forti, ma anche in campo internazionale ho avuto avversari di grandissima caratura. Su tutti posso citare il francese Gatien, il tedesco Rosskopf e il croato Primorac».
Il Ferentino disputò Coppa dei Campioni e Coppa Evans. Che ricordi hai di quelle competizioni internazionali?
«Un bel ricordo, perché riuscimmo ad esaltarci e sfiorammo la vittoria nei quarti di Coppa Campioni contro i fortissimi francesi del Levallois. E in Coppa Evans arrivammo addirittura in semifinale perdendo con il Lubeck, altra squadra di enorme caratura internazionale, perché in Germania il tennistavolo è uno sport molto importante».
Cosa manca al tennistavolo italiano per raggiungere la leadership o comunque per confrontarsi alla pari con le potenze europee di questo sport?
«Quel che manca anche in tante altre discipline, cioè gli impianti. È sempre un problema di strutture, soprattutto al Centro Sud. Noi ora a Ferentino, club nel quale attualmente svolgo la funzione di allenatore della prima squadra e di istruttore dei più giovani, abbiamo 40-50 tesserati e un impianto che ci consente di sistemare 4-5 tavoli, ma per un ragazzo di prospettiva non bastano un paio d’ore, che è la porzione di allenamento che riusciamo a garantire ai nostri tesserati».
Torniamo alla tua carriera. A 27 anni durante un allenamento in palestra, un incidente ti priva di un dito. Quanto ha condizionato i successivi riscontri agonistici?
«Quello è stato un momento duro. Purtroppo, cercando di togliere un pallone dal basket che si era incastrato a lato del canestro, non mi accorsi di una vite sporgente che si agganciò alla mia fedina e mi costò la perdita di un dito. Ovvio che questo abbia un po’ condizionato il proseguo della mia carriera, sebbene sia riuscito anche dopo quella data a togliermi altre belle soddisfazioni».
Nella vita quel che hai conquistato te lo sei guadagnato con l’impegno, l’allenamento e i sacrifici. Di te tutti dicono che sei stato e sei (ora come tecnico) un professionista impeccabile…
«Il senso del sacrificio me l’ha insegnato mia madre, la persona più importante della mia vita. Lei era di origine irlandese e non ha avuto una vita semplice. Il mio papà era operaio e i miei genitori si sono sacrificati tanto per noi: avevano cinque figli da crescere e poche risorse economiche, ma un grande senso della dignità e poi tanto amore da darci. Ed è quello il motore dell’esistenza. Il concetto che nella vita ci si debba sacrificare per ottenere dei risultati l’ho appreso proprio in quella fase della mia esistenza, in quegli anni difficili. Avevo voglia di emergere, di mettere a frutto le mie doti per costruirmi un futuro e ringraziando Dio ci sono riuscito».
Sei credente?
«Certamente. Vado spesso in Chiesa e prego Dio per tutti coloro che hanno bisogno di aiuto, per chi soffre e per chi avrebbe diritto ad una vita migliore. Credo nella preghiera e ho un profondo senso religioso».
Hai tempo da dedicare alla lettura?
«Mi piace informarmi. Leggo giornali, televideo, seguo i notiziari perché penso che si debba essere opportunamente informati prima di esprimere un convincimento in un senso o nell’altro. Se parli di romanzi o libri gialli invece francamente non trovo il modo di dedicarvi tempo».
Che rapporto hai con la tecnologia?
«Pessimo, io lavoro in un’azienda leader del suo settore da quasi 29 anni e devo stare al passo con i tempi. Ritengo però che la digitalizzazione abbia i suoi pro e i suoi contro. Ha migliorato la nostra vita per certi versi, l’ha complicata per altri. A me piacciono ancora l’agenda e la penna, sono un romantico».
Ti piace viaggiare, visto che nella tua carriera hai girato l’Europa e anche paesi extraeuropei per motivi agonistici?
«Mi piace viaggiare e devo dire che le bellezze paesaggistiche ed architettoniche non mi lasciano certo indifferente. In occasione delle mie gare in maglia azzurra ho avuto modo di vedere tante città e poi anche al di fuori dall’attività agonistica non disdegno di andare all’estero in vacanza. Delle città visitate ho una predilezione per Vienna, anche per la pulizia. Lì potresti davvero mangiare per terra. Se però devo indicare il Paese più bello del mondo, quello è senza alcun dubbio l’Italia. Noi abbiamo località meravigliose, ma…».
Ma?
«C’è una cosa che dobbiamo ammettere. Gli italiani tendono a disattendere le regole, dalle cose più banali, come la cintura da portare in macchina o la raccolta differenziata, ad altre più gravi. E così fatichiamo a stare al passo con gli altri paesi europei».
Chi è l’atleta più iconico dello sport italiano, il primo che ti viene in mente da indicare come esempio?
«Non ho dubbi: Pietro Mennea. Un atleta straordinario che si allenava in modo incredibile e che voleva essere il migliore, benché altri fossero più muscolati e più inclini a sviluppare velocità per doti naturali. Mennea è l’esempio più fulgido ed ora vedo un personaggio analogo in Sinner, che pensa costantemente a migliorarsi e che ha un approccio umile al lavoro, quasi non fosse il miglior tennista del mondo. Poi naturalmente ci sono anche Valentino Rossi, Valentina Vezzali e tra i calciatori dico Roby Baggio per tecnica pura».
Sappiamo che sei un appassionato di calcio e che segui anche il Frosinone. Come lo vedi in questa annata sportiva?
«Ha iniziato bene e mi pare una squadra tenace, di buona corsa. Inoltre apprezzo molto Alvini, un allenatore che sa il fatto suo e che ha già dato un’impronta precisa a questa formazione. Credo proprio che eviterà le ambasce dello scorso anno e potrà chiudere quantomeno a centroclassifica».
Ormai sei un ciociaro d’adozione. Che rapporto hai con questo territorio?
«La Ciociaria è una terra bella e generosa e a me è molto cara, visto che mi ha dato mia moglie Anna Maria e le mie due figlie, Maria e Giulia Teresa. Loro sono le mie vittorie più belle, non c’è dubbio».
Gennaro Di Napoli, 56 anni, talento precoce del tennistavolo, campione di professionalità e di umanità, ha vinto non solo sul tavolo da “ping pong”, come lo chiamano impropriamente i profani. Le sue battaglie più importanti questo ragazzo un po’ campano, un po’ irlandese e un po’ ciociaro le ha combattute sempre con la tenacia e con l’orgoglio di chi ritiene che nella vita niente sia dovuto, ma tutto possa arrivare con il sacrificio e l’abnegazione. Anche lui è un esempio, anche se è meno popolare del compianto Mennea o di Jannik Sinner. E noi siamo orgogliosi di averlo “adottato” in Ciociaria.
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