Icona senza tempo
31.01.2025 - 21:00
Il 26 gennaio scorso Paul Newman avrebbe compiuto cento anni. Il grande attore era nato a Shaker Heights, un sobborgo di Cleveland (Ohio), in una famiglia benestante di origine ebrea, che gestiva – peraltro con notevole profitto – la ditta di articoli sportivi Newman-Stern (la quale, all’epoca, nella sua categoria commerciale, era seconda soltanto alla Abercrombie & Fitch di New York…). La Grande Depressione del 1929 mise a dura prova l’attività familiare, che tuttavia riuscì a reggere al duro impatto della grave crisi economica.
Il padre di Paul era un uomo dal carattere difficile, piuttosto schivo, con velleità letterarie che tuttavia non riuscì mai a coltivare adeguatamente; la madre, invece, era una bella donna di origine slovacca, che in giovanissima età era stata già sposata con un uomo violento, dal quale aveva poi subito divorziato. I due genitori di Paul si volevano bene, ma non ebbero mai rapporti idilliaci. Tanto è vero che lei, una volta, confessò al figlio che oramai era un attore affermato: «Tuo padre e io abbiamo litigato tanto, ma a letto, insieme, eravamo eccezionali». Tale conflittualità emotiva probabilmente indusse il padre ad annegare segretamente la sua radicata insoddisfazione personale ed affettiva nell’alcol. L’adolescenza di Paul, ad ogni buon conto, trascorse tuttavia piuttosto tranquilla. Negli studi non eccelleva, ed infatti, in una sua autobiografia uscita postuma, scrisse: «Non mi impegnai per diventare un uomo istruito perché sapevo che non ce l’avrei fatta.
Quando leggevo Schopenhauer, a scuola non lo ricordavo, e non ricordavo neanche cosa non capivo… sono giunto alla conclusione di avere una sorta di disabilità per cui mi è difficile ascoltare le persone, leggere più velocemente di quanto riesca a parlare, addirittura memorizzare. Quale che sia il motivo, non mi sono mai distinto in niente di intellettuale, e non ho mai dato a mio padre motivi per essere fiero… davvero non comprendo le scienze dure. Non mi entrano in testa… la fisica, la trigonometria e la chimica erano troppo complicate per me. Mi sono scoraggiato e ho lasciato perdere… sono tuttora convinto di soffrire di un disturbo dell’apprendimento, e tuttora leggo con difficoltà. In effetti anche adesso ho qualche problema a imparare a memoria i copioni». Nonostante sin da giovane si distinguesse dagli altri per la sua oggettiva avvenenza, Paul, durante l’adolescenza, ebbe esperienze sentimentali tutto sommato occasionali. Basti pensare che sino alla fine degli anni Quaranta, per sua stessa ammissione, «…ero andato a letto in tutto con sole due donne!».
Sempre nella sua autobiografia così racconta la sua iniziazione sessuale: «La giovane donna che colse il fiore della mia verginità (da me dispensato con rapida benevolenza) l’avevo abbordata in una zona malfamata della città. Il mio secondo incontro, per la cronaca, fu con una signora di natali assai illustri di Jacksonville, Florida, dove svolsi parte del mio addestramento nella marina». Le cose, tuttavia, cambiarono rapidamente negli anni successivi, tanto è vero che le donne per lui “divennero un’ossessione”. La sicurezza acquisita lo spinse ad adottare uno stile di vita piuttosto dissoluto. Sotto la sua foto presente nell’annuario lo si definiva «incline a perdere il controllo in faticose, lunghe serate…» ed uno dei suoi compagni, ricordandolo, così lo definì: «Paul era eccessivo, lascivo, pericoloso. Probabilmente era il ragazzo più famoso del campus. Beveva più di tutti, scopava più di tutti. Era tosto e distaccato, il che eccitava le ragazze.
A loro piaceva perché era il demonio». Una volta lui stesso confessò: «Verso la fine degli anni Cinquanta lessi su una popolare rivista un sondaggio in cui si chiedeva a un sacco di donne quale personaggio famoso accendesse le loro fantasie sessuali. Di chi era la foto che usavano quando si masturbavano? Be’, si dà il caso che il “vincitore” fosse il sottoscritto». La sua carriera nel mondo della recitazione iniziò nel 1949. Dapprima il teatro. Poi, dopo l’inevitabile gavetta, il cinema. Di se stesso una volta ebbe a dire: «Non ho mai avuto la sensazione di possedere del talento perché sono sempre stato un epigono: seguivo qualcun altro interpretando materiale di cui non ero in fondo il creatore… è il mio aspetto fisico che mi ha aperto le porte. Dove diamine sarei arrivato con il viso di Golda Meir? Probabilmente da nessuna parte; mi sentivo come un tizio che ha una rendita fissa e non ha bisogno di lavorare. L’aspetto è sempre stata la mia rendita fissa. Potevo tirare avanti con quello… So che alcuni attribuiscono la svolta nella mia carriera alla morte di Jimmy Dean. Sì, c’è una componente di fortuna, e molto del mio successo è legato a quella che definisco la fortuna di Newman. Questa ebbe inizio nel 1925, quando nacqui bianco in America. La seconda fortuna fu l’aspetto fisico. La terza fu la capacità di inventare storie.
E ho avuto anche la fortuna di superare il fatto che, parlando di me, la gente dicesse sempre “Non è un amore?” o “È così carino!”, perché ebbi la forza necessaria per capire che non sarei mai vissuto solo di questo. Ho sperimentato l’indifferenza, la stupidità e la mia mancanza di intuito. Ma mai vere e proprie avversità. La fortuna mi ha sorriso. Se Jimmy non fosse morto, una parte di me dice: avresti potuto farcela lo stesso. Ci sarebbe voluto un po’ più di tempo, ma ce l’avresti fatta comunque». Più avanti, a dire il vero, la buona sorte gli girerà le spalle, perché suo figlio Scott Allan, nel 1978, morì prematuramente per un’overdose di stupefacenti. Ad ogni buon conto la sua carriera professionale fu costellata da numerosi successi. Basti infatti pensare che fu candidato per dieci volte al premio Oscar, vincendo poi la prestigiosa statuetta nel 1986 (per la carriera) e, l’anno successivo, come miglior attore protagonista per “Il colore dei soldi”.
Ricevette inoltre numerosi altri riconoscimenti, tra cui un Bafta, tre Golden Globe, uno Screen Actors Guild Award, un Primetime Emmy Award, il Golden Globe alla carriera, ed il Jean Hersholt Humanitarian Award. Grandissimo appassionato di automobilismo, vinse numerosi titoli nazionali, entrando nel Guinness dei primati come il più anziano vincitore – a settant’anni suonati – di una gara professionistica (classificandosi infatti al primo posto della propria categoria alla 24 Ore di Daytona). Ma, forse, il suo principale merito fu quello di attivarsi concretamente in ambito umanitario. Tanto è vero che, nel corso della sua lunga esistenza (morì infatti ad ottantatré anni, a causa di un tumore ai polmoni), raccolse e donò quasi un miliardo di dollari a varie organizzazioni benefiche. Indubbiamente è questa la sua vittoria più grande ed importante.
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