Spazio satira
L'intervista
27.08.2024 - 19:58
Patrizia Baglione
Atredici anni ha conosciuto la poesia di Alda Merini e di Cesare Pavese, un colpo di fulmine, di quelli che «lasciano senza respiro e inducono a chiederti perché non sia successo prima». Da allora la poesia è diventata essenza di vita. Patrizia Baglione, verolana, oggi ci parla di “Madre che resta”, ultima fatica autoprodotta quest’anno.
In “Nero crescente” (RPlibri, 2022), la sua poesia era rivolta all’amore in sé, dopo un’esperienza non molto felice. Anche il suo nuovo libro è autobiografico?
«Non era un amore qualsiasi, quello descritto in precedenza, ma una durissima esperienza con un amore malato e violento. Odio e amore permeavano tutto il libro, perché le emozioni nelle relazioni tossiche sono fatte così, sono ambigue. Anche ora, con “Madre che resta”, rivedo una mia tristissima esperienza, sicuramente più drammatica della precedente, con gli occhi della scrittrice che indaga e chiude un capitolo poco sereno della propria vita».
La stesura del testo è stata travagliata?
«“Madre che resta” vede la luce dopo tre anni dalla ferita: due anni per metabolizzare, per quanto possibile, uno per lavorare sui testi. A quasi un anno dalla stesura, ho scelto di eliminare tutti i testi salvandone forse un paio. Sono tornata a testa bassa sui fogli e ho riscritto praticamente tutto daccapo, ma con un linguaggio diverso, forse più maturo».
Ci parla del titolo?
«Sono una madre che resta nonostante un figlio non venuto al mondo. Non è mai facile toccare un tema così delicato, soprattutto quando si parla di aborto volontario. Il mio di volontario, in verità, ha avuto ben poco. Non ho avuto alcuna scelta in quel momento. Il compagno di allora mi aveva minacciata in tutte le maniere possibili, compreso di prendersi il figlio una volta nato. A solo un mese di gravidanza mi minacciò di “mettermi un coltello alla pancia”, qualora non avessi assecondato i suoi voleri».
Qual è lo stato d’animo di una donna che decide di abortire? Esiste una motivazione che superi il dolore dell’atto?
«Ogni donna reagisce differentemente, con suoi stati d’animo e motivazioni personali. Il dolore diventa così un compagno di vita. Almeno nel mio caso è così. Io non volevo farlo, quel figlio lo desideravo a prescindere, ma la situazione suggeriva altro. Ne andava della mia e sua incolumità».
Ripercorrere la sua esperienza con la poesia è stato un dolore aggiunto, un sollievo o una liberazione?
«Lo diciamo spesso, tutti noi che scriviamo in versi, che la poesia non salva. Ed è vero. Non salva, ma come un percorso verso se stessi, attraversare il dolore con la poesia ci può trasformare in qualcos’altro. In quanto a liberazione, non credo ci si possa davvero liberare di un fardello del genere. I sensi di colpa, almeno nella mia situazione, sono sempre dietro l’angolo. Non c’è mai un vero giorno in cui il pensiero non vada lì. Immagino in continuazione l’età, il sesso, il volto che avrebbe avuto. E poi tutto il resto…».
La sua poesia, così diretta e vera, apre una porta sulla sua intimità: quanto le è pesato questo gesto?
«Mi è costato abbastanza, ma mi è sembrato doveroso anche per quella creatura che ha sacrificato la sua vita, affinché potessi vivere la mia. Sono madre, me lo ripeto spesso. In fondo la maternità va al di là del nascituro. Io lo sono nel cuore e nello sguardo che rivolgo verso il mondo, nonostante mi abbia ferito spesso».
Le poesie di “Madre che resta” lasciano una speranza alla donna?
«Sì, assolutamente. Attraverso il coraggio ogni donna può dirsi libera. Solo che ancora oggi, questo coraggio lo paghiamo a un prezzo troppo caro. E tutto questo è impensabile».
Il suo libro è anche un impegno civile?
«Il mio libro è tante cose. Una costola, una ferita, una rinascita. È anche un impegno civile ma, soprattutto, mira a spostare lo sguardo altrove. Con parte del ricavato dalla vendita del libro sto acquistando giocattoli che a dicembre consegnerò al reparto oncologico dell’ospedale “Bambino Gesù”. Mi sono sentita con un’associazione di Roma e con loro seguirò a breve un corso di volontariato, per stare vicino a chi soffre. Lo desideravo da tempo. Così facendo, oltre a realizzare un mio sogno, potrò essere presente fisicamente tra i corridoi dell’ospedale».
Che cosa fa, oggi, nella vita?
«Sono un addetto stampa. Dedico la maggior parte delle ore alla lettura di libri e alla loro promozione perché è l’unica cosa che mi interessa davvero. Gli amici li sento per telefono. Le storie d’amore sembrano essere acqua passata. Dunque, ho tutto il tempo del mondo, mescolato alla voglia di riscatto e duro sacrificio. Non mi fa paura neppure soffrire, aspettare, essere messa all’angolo. Ognuna di queste sensazioni le ho vissute sulla pelle e mi hanno aiutata a diventare grande. Dove andrò? Chi sarò tra dieci o cinque anni? Poco importa. Oggi, se solo guardo indietro, mai avrei pensato di arrivare fino a qui. Non credevo neppure di uscirne viva».
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