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Il personaggio

Mario Abbruzzese e la strategia dei disastri annunciati

Cronaca semiseria di dieci anni di sconfitte. Dalla Saf al seggio alla Camera svanito fino al sogno europeo

mario abbruzzese

Mario Abbruzzese

C’è chi ancora lo ritiene “uno stratega” o “uno che di politica ne sa una più del diavolo”. Ma oggi, dietro quel sorriso dolce e beffardo, tra l’abile affabulatore e il marpione navigato, c’è l’ennesimo schiaffo da nascondere, l’ulteriore calcolo sbagliato, l’abbonamento seriale con uno psicodramma. Mai come questa volta annunciato e prevedibile. Eppure Mario Abbruzzese, sessantesei anni domani, da Sant’Angelo, frazione di Cassino, di chilometri in un anno ne aveva macinati milioni battendo in lungo e largo dalla Toscana all’Umbria, dal Lazio alle Marche, quello che sarebbe diventato il suo collegio per l’ultima delle sfide. Quella del fuori o dentro. La competizione che avrebbe dovuto portarlo dritto dritto a Bruxelles. E perfezionista com’è c’era già andato nella triste e piovosa capitale del Belgio. A sentire l’aria. A pregustarsi il seggio. A prenotarsi, non si sa mai, un appartamento zona Parlamento.

Gli esperti di politica conoscevano il limite e la temerarietà dell’ambizioso progetto. Dove vai se non ti appoggia il partito, dove vai se la Lega, sì e no, strappa un seggio, dove vai con questi compagni di ventura che al mattino ti aspettano al Canarino o da Varlese e il pomeriggio se ne vanno quatti quatti a brigare verso porti più sicuri. Dalle parti di Meloni o finanche di Tajani con le comode scialuppe organizzate da quella vecchia volpe di Claudio Fazzone. Certo, l’ottimismo è il motore del successo e se vedi ovunque gatti neri rischi di morire travolto dai rimpianti. Ma qualcuno che invece di un’accondiscendenza stupida e falsetta ti dicesse “ma n’do vai se etc. etc.” ci vorrebbe pure quando ti metti in mente di puntare alla Luna se prima non sei stato capace di montare sul tagadà alla festa del paese. Si scriveranno libri, tra qualche anno, su questo mitologico Mario. Che nella vita, dopo aver costruito il suo successo tra il Consiglio comunale di Cassino, la Provincia di Frosinone e il Cosilam, è riuscito a collezionare solo una serie infinita di clamorosi e tragicomici insuccessi.

D’altronde pure il suo Consiglio regionale al vertice del quale restò per quasi due anni, punta più alta della sua carriera, per come finì e per quello che venne fuori, segnò in qualche modo il valico tra la fine della seconda repubblica e l’inizio della terza. E il povero Mario di quei giorni tra marmi, hostess e steward ovunque, scrivanie iperdirezionali e stanze a cinque stelle, non potrà nemmeno vantarsene con i nipotini per la ferita che si aprì quando vennero fuori la storia di Franco Fiorito, le generose elargizioni di denaro ai gruppi, le cene “maialesche” patrocinate con denaro dei contribuenti. Finì tutto male. E da quel giorno, come direbbe Mourinho, “zero tituli”. Tra la voglia sempre mascherata di puntare a qualcosa in più e il dover nascondere il fastidio della rinuncia alla prima linea alla quale promosse il giovane Pasquale Ciacciarelli da San Giorgio a Liri. Che da autista si trovò prima in consiglio regionale e poi, da “trombato,” anche assessore.

L’occasione più ghiotta per riconquistare la ribalta fu quella del 2018. Il collegio di Mario per la Camera, quello di Cassino, sui giornali era “blu notte”. Nel senso che lì non avrebbe perso nemmeno uno dei tanti Cetto La Qualunque in giro dalle nostre parti. Lui, invece, riuscì nell’impresa titanica e da manuale di regalarlo ai Cinque Stelle. Impaziente di aspettare l’apertura delle urne organizzò una pre-festa a Isola del Liri postando foto gaudenti di brindisi a base di ostriche e champagne la sera prima del voto. E una cinquantina di amici-elettori, offesi per non essere stati invitati all’originale (unico e irripetibile nel suo genere) party del giorno prima, il giorno dopo andarono a regalare alla sconosciuta Ilaria Fontana il seggio a Montecitorio. Mario, lo stratega dei disastri. Se oggi Cassino è una città di centrosinistra con un bacino elettorale politicamente quasi del tutto di centrodestra lo si deve alla mirabolante idea di mandare a casa Carlo D’Alessandro per provare direttamente a governare la città martire. Come è finita lo sappiamo bene. Enzo Salera e i suoi lunedì hanno vinto al primo turno stracciando, umiliando e asfaltando i reduci di Mario e i loro cugini, fratelli e azzurri.

Per non parlare di tutto il resto. Negli ultimi anni, complici le strategie spumeggianti propinate a chi lo ha scelto come alleato ha perso sempre e ovunque. Alla Saf e alla Provincia. Sempre in maniera rocambolesca. Quando vinse Vicano scalzando Cesare Fardelli, l’idea fu proprio la sua. Scese dal carro del “povero” Mauro dopo averlo cercato personalmente per proporgli il progetto. Ma l’iniziativa e i sostenitori erano ormai partiti e l’ex commissario della Asl diventò presidente relegando Mario all’opposizione. L’ultima volta a Colfelice, all’elezione di Fabio De Angelis, non si è nemmeno presentato. Nonostante tutto, nessuno che pensa di salvare il soldato Mario. Tradito dalla sua irresistibile voglia di dimostrare di saper giocare a poker meglio degli altri. Di gestire, montare e disfare accordi nel giro di una notte, un giorno o meno di un’ora. Tradito dalla stessa essenza della sua politica senza storia e senza identità. Quella del “venite con me che ne so sempre un po’ più io degli altri”. Quella nella quale gli accordi costano. E pure tanto. Come i manifesti che devi mettere a Roma per spingere sulla “politica dei territori” e chissà che gliene frega agli automobilisti incazzati, in fila e con il clacson a manetta sulla Tuscolana. Tradito dalla necessità di essere SuperMario come il giochino che si è fatto fare, fuori tempo massimo, dagli ottimi ragazzi di Dopamina. Gli stessi che hanno pure provato a rendere virale l’indignazione dell’ex presidente del Consiglio regionale per la farina di insetti, il tema dei temi del sovranismo alimentare che, forse a corto di idee, ha rubato al ministro Lollobrigida.

Tradito dalla sua terra che forse non ha dimenticato il crac Fiorito-Polverini. Tradito da Frosinone dove Ottaviani+Mastrangeli+Petricca+Martino+Scaccia+Verrelli+Renzi+Grieco+Alviani+Chiappini+tutti gli altri gli avevano promesso il plebiscito e si sono fermati a poco più di mille voti. Meno del doppio di quelli, per esempio, rimediati con una mano sola e in un paio di giorni da Fabio Tagliaferri e dal suo gruppo per Carlo Ciccioli. Tradito dalle masse oceaniche periodicamente radunate e attovagliate all’Edra di Cassino che se avessero restituito un paio di voti a testa per le abbondanti cene a scrocco dell’ultimo anno, oggi il povero Mario sarebbe in grado di contendere a Ursula von der Leyen lo scettro della Commissione europea. Tradito pure, però, da quelli che lui e forse qualche suo amico, hanno tentato di scalzare. Da quel Claudio Durigon che, oggi si può dire, cinque mesi fa ci telefonò facendoci intuire che la Lega non avrebbe puntato su SuperMario. Mentre lui già viaggiava tra Bruxelles, Firenze, Perugia e Roma. Quel Claudio Durigon e quel Matteo Salvini che dopo avergli salvato Ciacciarelli e aver capito l’antifona, mai e poi mai gli avrebbero lasciata aperta la strada per la gloria.

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