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L'intervista

«Quella deriva plebiscitaria del referendum». L’analisi del prof Sterpa

Il professor Alessandro Sterpa critica il tentativo di caricare di altre finalità la consultazione referendaria

«Quella deriva plebiscitaria del referendum». L’analisi del prof Sterpa

Alessandro Sterpa, professore associato in Istituzioni di Diritto pubblico nella Università degli Studi della Tuscia

Il mancato quorum al referendum ha reso non valida la consultazione, ma i partiti promotori dei quesiti hanno comunque cantato vittoria, sostenendo che era importante che il numero dei votanti per i fosse più alto di quello dei voti presi dall’attuale coalizione di governo nel 2022. Insomma, una deriva plebiscitaria, assolutamente slegata da qualunque logica. Come del resto conferma Alessandro Sterpa, professore di Diritto costituzionale nell’Università degli Studi della Tuscia. «Ormai i referendum vengono caricati di significati radicali, una deriva plebiscitaria. Mi creda, io ho votato ma sono furioso per questo atteggiamento della politica».

Professore, in che senso parliamo di referendum plebiscitari?
«Lo strumento, a livello costituzionale, nasce per altro. Si tratta di un mezzo pensato dai padri costituenti per garantire all’elettorato di poter chiedere l’abrogazione di una legge rispetto alla quale una maggioranza qualificata di cittadini, si dice contraria. Per questo ci sono le previsioni del 50% più uno degli elettori. L’idea originaria era quella di poter dare ai cittadini uno strumento per opporsi a una legge fatta dal Parlamento. Da tempo assistiamo invece a un fenomeno per cui il referendum viene caricato di altri significati, come accaduto in quest’ultimo da parte del centrosinistra. Alcuni partiti erano preoccupati, più che del raggiungimento del quorum (50% più uno degli elettori) e degli effetti del referendum (cambiare le regole), di mettere insieme un numero di votanti che superasse i quasi 13 milioni di voti ottenuti dal centrodestra vincitore delle politiche del 2022.
Un ragionamento infantile che presuppone che l’elettore sia un automa inquadrabile una volta per tutte, quando in realtà sappiamo quanto sia fluido il voto dell’elettore italiano. Il plebiscito è in grado di dividere la società lungo un confine di volta in volta costruito e comunicato ad arte (prima e dopo l’esito) a prescindere dal contenuto del quesito: si spezza in due la nazione senza preoccuparsi di cosa la tiene insieme e si legittima una politica di mera sopravvivenza elettorale».

Ora c’è chi, come Giuseppe Conte, chiede di abbassare la soglia dell’affluenza al referendum.
«Non serve, è sbagliato come principio. E anche pericoloso. In Costituzione la percentuale del 50% più 1 serve proprio a garantire questa rappresentanza popolare per l’abrogazione di leggi fatte dal Parlamento. Se si abbassa la soglia, salta questo intendimento. Sarebbe invece più logico aumentare il numero delle firme da raccogliere, così da avere argomenti più coinvolgenti, rispetto ai quali c’è una reale attenzione degli elettori. Non si può andare a votare per abrogare qualsiasi cosa. Anzi, mi lasci dire una cosa».

Prego
«Dobbiamo essere grati alla Corte costituzionale per aver fermato il referendum sul “regionalismo differenziato”; in questo modo ha sottratto al tiro al piccione una parte della Costituzione».

Professore, però c’è anche un problema più ampio legato alla partecipazione degli elettori al voto. Politiche, regionali, amministrative: sono sempre meno coloro che vanno alle urne. Cosa sta succedendo?
«Semplicemente ci stiamo allineando al resto d’Europa. Non c’è nessun allarme e nessun motivo di creare allarmismi. L’Italia fino agli anni Duemila era una sorta di eccezione in Europa. Da noi andavano alle urne anche l’80% degli aventi diritto. Negli ultimi 25 anni, invece, ci siamo pian piano allineati al resto del Continente, con affluenze attorno al 50-60%».

Comunque c’è un disaffezione verso la politica?
«A mio avviso sono tre le considerazioni che si possono fare per realizzare l’identikit di chi non vota. Primo, ci sono quelli che non votano per serenità. Si tratta di elettori che stanno bene socialmente ed economicamente, per i quali l’esito del voto non cambierebbe nulla del loro destino e dunque sono disinteressati. Secondo, ci sono quelli del lato opposto, ossia coloro che sono convinti he andare a votare possa voler dire cambiare tutto. Sono coloro che quando votano trainano i sovranismi, ad esempio. Terzo, ci sono coloro che fanno parte della classe dirigente o dei ceti produttivi e che hanno un senso di scoramento verso la politica. In pratica non votano perché non ci credono più. E in questo senso il sistema elettorale che abbiamo ad esempio alle politiche, non è che aiuti molto».

In che senso?
«Molti elettori sentono che il loro voto è inutile per eleggere il candidato del territorio, dal momento che questo è praticamente già definito a tavolino da liste bloccate e dunque dai partiti stessi. Questo scollamento tra classe dirigente ed elettorato è abbastanza evidente e in parte va a motivare quel gruppo di non votanti che non credono più nella politica o in un vero e proprio cambiamento».

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