Spazio satira
Il ricordo
25.04.2025 - 08:00
Il vescovo di Frosinone-Veroli-Ferentino e Anagni-Alatri, monsignor Ambrogio Spreafico, traccia un ritratto commosso e profondo di Papa Francesco. Presidente della Commissione Episcopale per l’ecumenismo e il dialogo, membro del Dicastero delle Cause dei Santi e di quello per la Cultura e l’Educazione, Spreafico ricorda il pontefice come un pastore di unità, di comunione.
Quando ha incontrato Papa Francesco e che ricordo ha?
«Ho potuto incontrare Papa Francesco diverse volte. Ho sempre avuto l’impressione che fosse una persona che ti ascoltava e ricordava anche i particolari. Amava la sincerità e discuteva accettando anche pareri diversi dai suoi. Ad Assisi, nel 2016, partecipò all’incontro di preghiera per la pace organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio: mentre passava a salutare le delegazioni di altre fedi, vedendomi insieme al gruppo dei rabbini, mi chiese se fossi vescovo dei cattolici o degli ebrei! Sapeva quanto fosse importante ascoltare tutti, essere amico di tutti, anche nei momenti difficili. Non è un caso che il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, sia andato tra i primi a rendere omaggio alla sua salma, quasi come un familiare, sebbene, in qualche occasione, ci sia stata qualche incomprensione. Mi è rimasta impressa una conversazione con il Papa, circa un anno fa, su vari temi: dal dialogo tra le religioni, fino all’impegno per il creato, perché ero stato al Sinodo sull’Amazzonia. Papa Francesco aveva avuto problemi al ginocchio e si stava riprendendo, mi fece partecipe della sua forza d’animo nel superare gli acciacchi del corpo. Amava conversare, anche scherzare».
Che eredità lascia?
«Era vescovo e papa con il popolo. Un pastore di unità, di comunione. Lo ha mostrato a Pasqua quando, con un enorme sforzo, ha voluto benedire il mondo e passare tra la gente per salutare. È l’immagine di un uomo globale, che ha saputo guardare oltre le frontiere, di una Chiesa che accoglie tutti. Una Chiesa che cerca di parlare con tutti, dai poveri, privilegiati da Dio, fino ai grandi della terra. Laudato si’ e Fratelli tutti, due encicliche complementari che racchiudono la visione globale di Francesco: in un creato armonico, libero dal caos, ci troviamo come fratelli tutti, proprio tutti. Un sogno? Forse sì, ma è il sogno di Dio, sin dalla Genesi».
Da molti è considerato come un Papa di “rottura”, perché secondo lei?
«Si può dire che ha cercato di riprendere con vigore lo spirito del Vaticano II, una Chiesa-popolo (costituzione sulla Chiesa: Lumen Gentium), in uscita, nel mondo, attenta alle fatiche e alle speranze dell’umanità (secondo la Gaudium et Spes), fondata sulla Parola di Dio (Dei verbum). Una Chiesa non chiusa nelle istituzioni, che vive la tradizione nel “cambiamento d’epoca”, come usava ripetere. Su questo è stato un uomo di rottura, nel senso che ha cercato di traghettare la Chiesa nel cambiamento d’epoca, perché potesse comunicare con generosità la gioia del Vangelo. Riceveva l’eredità di Benedetto XVI, un teologo che ha aiutato la Chiesa in un momento difficile con saggezza, rinsaldando le sue fondamenta, e poi di Giovanni Paolo II, un pontefice che ha percorso il mondo per allargare gli orizzonti e dialogare con tutti. Francesco, un “Papa che veniva dalla fine del mondo” ha dato la sua impronta».
Un Papa che non ha mai ceduto alle ingiustizie, si scagliava contro le guerre, ha affrontato temi importanti come l’ambiente, l’immigrazione…
«Sì, credo proprio che non sopportasse le ingiustizie, la guerra, la violenza, lo “scarto” dei poveri. Si potrebbe dire che ha assunto alcuni toni dei profeti della Bibbia (come Amos o Isaia), quando condannavano l’ingiustizia verso i poveri, l’oppressione dei deboli, il dominio del denaro, che tutto compra e vende senza, nessun rispetto dell’umanità. “Il denaro puzza!”, ha detto una volta. Aveva un profondo senso dell’uguaglianza della famiglia umana. Si è lasciato ferire dal dramma dei profughi, andando fino a Lampedusa dopo i morti nel Mediterraneo, ma anche sostenendo l’esperienza dei corridoi umanitari, un canale sicuro, dignitoso e controllato per i migranti. Aveva ben chiaro che non basta accogliere, bisogna integrare. La guerra, per lui, era sempre un male, come le armi. Ne parlava ogni volta, invocando la pace. Per questo ha affidato al cardinale Zuppi la missione di incontrare leader mondiali, per trovare vie di dialogo in Ucraina e per salvare vite. Mi ha colpito come chiedeva sempre di pregare per il Myanmar, un Paese in guerra da anni, schiacciato da un terribile terremoto, dimenticato da tutti. Nel messaggio per la giornata mondiale della pace del 2016 ha parlato di “globalizzazione dell’indifferenza”. Purtroppo è ancora la tragica realtà. Ma era “ottimista”, nel senso di un uomo di fede e di speranza, da cui il “Giubileo della speranza”. Credeva che si può cambiare».
Come è cambiata la Chiesa durante il pontificato di Bergoglio?
«Bergoglio ci ha abituati a vivere la gioia del Vangelo nell’incontro, nel dialogo, uscendo da vecchi schemi istituzionali e ripetitivi. Il manifesto del pontificato, Evangelii Gaudium, è stata la guida per una Chiesa di popolo, che incontra e dialoga. Chiedeva una “conversione pastorale”, un nuovo modo di essere Chiesa. Nell’assemblea ecclesiale di Firenze nel 2015 aveva rivolto tale invito alle diocesi italiane. Chi ha provato a mettere in pratica questo cambiamento, come abbiamo fatto a Frosinone, si è accorto di una ricchezza: i laici, partecipi con intelligenza e generosità di un modo sinodale di essere Chiesa, di camminare insieme, decidere insieme. Insomma, il cammino sinodale è una Chiesa che parla a tutti, anche ai giovani, che incontra le istituzioni e le associazioni della società civile, per contribuire insieme al bene comune. La società è piena di donne e uomini che vogliono il bene. Ma si deve camminare insieme, altrimenti ci si perde, perché il mondo è duro, a volte spietato, soprattutto con gli ultimi, con le periferie. “Nessuno si salva da solo”, aveva affermato con forza, in quella piazza san Pietro deserta, all’inizio del Covid: sono immagini che non dovremmo dimenticare, la forza debole di un uomo anziano, solo, eppure capace di generare comunione e speranza, attraverso la preghiera di intercessione, per l’umanità intera. Secondo me, Francesco voleva che la Chiesa vivesse sempre più così, guardando gli altri con simpatia e misericordia, un vero ospedale da campo, capace di costruire la pace».
Tra pochi giorni comincerà il conclave, è il momento di un Papa italiano?
«Non so di chi sia il momento. La maggior parte dei cardinali è stata creata da Francesco. Sono portatori di mondi davvero diversi, spesso periferici, ma ognuno esprime, a modo suo, l’eredità di Francesco. Siamo nella lunga tradizione della Chiesa e, quando uno riceve un mandato, la missione stessa lo plasma. Qualcuno sorride, quando si dice che nel Conclave c’è l’opera dello Spirito Santo. Certo, ci sono giorni di incontri informali tra i cardinali, in cui si dovranno conoscere, pensare al futuro della Chiesa, in questo tempo di grandi divisioni e inimicizie, scegliere dei nomi sui cui orientarsi. Nel cosiddetto Concilio di Gerusalemme, di cui si parla negli Atti degli Apostoli al cap. 15, emersero discussioni e divergenze. Ma, alla fine, essi composero una lettera per i cristiani di Antiochia: “È parso bene, allo Spirito Santo e a noi...”. Prima lo Spirito, poi le decisioni: un invito, per ogni epoca, a deporre protagonismi e a lasciarsi guidare dallo Spirito, che soffia dove vuole e crea novità».
Indipendentemente da chi sarà il nuovo Pontefice, è pensabile che possa continuare sul solco tracciato da Francesco?
«Ogni Pontefice ha la sua storia e la sua personalità. Nella mia vita ne ho conosciuto diversi, da Pio XII a Francesco. Nessuno uguale all’altro, ma tutti radicati nella tradizione vivente di una Chiesa che si fonda sulla Parola di Dio, vissuta nella storia. La Parola diventa quindi scelte e anche novità. Non può che essere così, perché la Chiesa vive in mezzo alle donne e agli uomini di ogni epoca e latitudine. Poi l’amore per i poveri e gli ultimi ci aiuta sempre a non essere padroni e arroganti, ma servi umili. Quindi credo non si potrà certo ignorare quanto lasciato alla Chiesa e al mondo da Francesco. La sua parola farà parte di quella tradizione vivente, che permette alla Chiesa di comunicare la forza e la bellezza del Vangelo di Gesù Cristo, buona notizia che rende fratelli e sorelle».
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