Spazio satira
Tradizioni
16.04.2025 - 19:00
Nella puntata del 7 febbraio 2024 accennavo al fatto che il teatro ottocentesco trova nel “popolare” la sua fonte più ricca, dal momento che il Romanticismo prima e il Naturalismo dopo accompagnano l’affermazione della borghesia e l’avanzare delle classi popolari sulla scena della storia. Il mio discorso partiva dall’opera di un letterato livornese, Giovanni Targioni Tozzetti, autore, nel 1891, di un “Saggio di novelline, canti ed usanze popolari della Ciociaria”. In questo volume diede tra l’altro conto di tradizioni e riti legati al “ciclo della vita”, caratterizzanti il folklore ciociaro, con le sue accensioni tipicamente spettacolari e una codificazione di modi, posture, parole, di matrice tipicamente teatrale.
È bene precisare che i riti, di cui Targioni Tozzetti (ma anche altri, come Cesare Pascarella, ai cui racconti prima o poi dedicherò una o più puntate, hanno descritto tradizioni e folklore ciociaro) ci offre una dettagliata sintesi, non sono “teatro”, eppure il teatro assorbe le istanze popolari che erano il fondamento di quei riti, traducendoli in drammi di grande presa sul pubblico. In un prossimo futuro vedremo infatti alcune opere teatrali ottocentesche tipicamente ispirate a questo humus culturale.
Nella puntata precedente avevo raccontato – sulla scorta delle pagine del libro del livornese – il complesso rituale del fidanzamento e delle nozze. Nel “Saggio” trova posto anche la descrizione del rito del “reconsulo”, cioè del pranzo abbondante offerto da parenti o amici ai familiari di un defunto, pranzo che simboleggiava la continuità della vita individuale e sociale, nonché l’intima partecipazione al dolore per la perdita della persona scomparsa.
Si tratta di una tradizione legata direttamente alla conclamatio dell’antica Roma: appena qualcuno moriva, i parenti raccolti intorno al cadavere, piangevano e gridavano di dispiacere; poi si sedevano a tavola ed aveva luogo il banchetto funebre (silicernium), e nove giorni dopo si faceva la coena novendialis, in cui si mangiavano uova, lenticchie e sale, ed alla quale talvolta seguivano alcuni spettacoli (ludi novendiales). Il tradizionale “reconsulo” ciociaro era un rito di lunga durata, e cominciava allorché un malato si aggravava o quando il medico annunciava che ormai non c’era più nulla da fare. Congiunti e amici correvano al capezzale, e le donne facevano a gran voce promesse. «Uh! Madonna meja – diceva la moglie – se tu me fai refà maritemo, te volemo menì a trovane a Loreto, fusse magare de vènnemu chiste bieglie “ricchini che me fece chella colonna che me vuo’ accide”, quanne se spusemmo!».
Tutte le donne si disperavano, mormorando scomposte preghiere, mischiandole con bestemmie a causa del fatto – dicevano gli altri presenti – che «Ce l’havo pigliata cu nui gli santi! Ce s’avo misse contre de nui tutti quantu gli malanni ’st’anno, ma 1’ha da scuntà’ Sante Bastiaini!». Alcuni altri invece se la prendevano con il prete di paese, per l’inefficacia delle sue preghiere per ottenere la guarigione; altri ancora biasimavano le cure portate dal medico che non era stato capace di salvare la vita del malato.
Morto il quale, i congiunti lontani e gli amici intimi si radunavano per concertare il giorno nel quale dovevano «portà gli reconsulo». In genere nell’ottavo dal decesso, le donne uscivano dalle proprie case, per recarsi nella casa del defunto con i canestri pieni di vivande già cucinate.
Radunatisi tutti gli amici e i conoscenti, ascoltavano gli sfoghi e i lamenti dei superstiti, unendosi a loro nei pianti e nelle preghiere, finché una delle comari non compariva sulla porta, facendo un cenno con la testa, volendo dire che aveva apparecchiato e che la pasta era già in tavola. Allora il più vecchio della comitiva si alzava a fare un discorsetto consolatorio, appunto «gli reconsulo».
L’anziano del gruppo alludeva al fatto che la morte non fosse qualcosa di definitivo, e che, considerate le virtù del parente deceduto, egli stava ora, sicuramente, pregando in paradiso in sconto dei peccati di tutti i presenti. Ma poiché tutti proseguivano a dolersi e a piangere, diceva ancora: «Ché ce volute i’ appressu? I nu giorno o gl’autro, ce tename da i’ pure nuie dinnanze a chiglie ’Ddie, che chi sa se ce perdonarà duglie puccate nostre!».
E infine concludeva: «Ringraziate ‘Ddie che gl’ha fatto morì agli letto, che tanta povera ‘ggente more accisa ‘n mesa la via, senza gli sacramenti! Iame, iame a magnà’… lassate i’ ‘se lamenti… Sarìa ora de fenirla… n’ ce pensate chiù… Cacciate glie maccarune, cà le cummare havono fame… A tavola, a tavola!». Così iniziava il pranzo, che veniva ripetuto poi nei giorni seguenti finché non veniva consumato tutto il cibo che era stato preparato. Poi amici, conoscenti e famigliari si salutavano intonando stornelli e cantilene, con un umore a metà tra la malinconia e la voglia di voltare pagina e riprendere la vita di tutti i giorni.
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