Il personaggio
23.08.2024 - 21:00
Tra i personaggi più iconici della cultura popolare degli ultimi decenni, un posto certamente non marginale va a mio avviso riservato anche a James Bond, il celebre agente segreto partorito dalla fantasia dello scrittore inglese Ian Fleming, che è il protagonista di una serie di romanzi, di alcuni racconti, e – soprattutto – di una saga cinematografica che, dal 1962, riscuote un enorme successo in tutto il mondo. Tutti conoscono l’incredibile coraggio, le inimitabili gesta, e l’acuta intelligenza del celeberrimo “007”; ed inoltre ammirano (non senza un pizzico di bonaria invidia…) il suo straordinario “sex appeal” e la sua inimitabile eleganza.
Non a tutti è invece nota la storia personale del suo altrettanto celebre “padre letterario”. Fleming proveniva da una famiglia piuttosto conosciuta dell’alta borghesia britannica (tanto è vero che, quando suo padre morì in battaglia durante la Prima Guerra Mondiale, Winston Churchill scrisse, per il “Times”, un lungo ed appassionato necrologio). Aveva un fisico prestante, uno sguardo molto intenso, una notevole cultura, uno spiccato “savoir faire” ed una naturale predisposizione per le lingue, tutte qualità che lo aiutarono ad acquisire un indiscutibile fascino, soprattutto nei confronti dell’universo femminile. A tal proposito, in una dettagliatissima biografia dello scrittore, John Pearson così lo descrive: «Era qualcosa di più di un donnaiolo, e qualcosa in meno di un libertino.
La sua cattiva reputazione in questo campo veniva alimentata anche dalla mancanza apparentemente assoluta di riserbo nei confronti del sesso, tipico, in genere, degli inglesi… Nutriva un interesse profondo, quasi ossessivo per questo argomento… se ad un ricevimento incontrava una donna che gli piaceva, non esitava, dopo mezz’ora, a proporle di andare a letto insieme, e un rifiuto lo lasciava indifferente… gli piacevano le donne, ma non le amava, come succede spesso ai donnaioli incalliti… gli uomini vogliono una donna – disse una volta – da accendere e spegnere come una lampadina… le donne servono a scaricare la tensione, ad alleviare temporaneamente la solitudine».
In un’intervista, una volta, Fleming confessò tra le tante altre cose (ma a dire il vero con ben poca eleganza…), che «le donne non sono pulite… anzi sono assolutamente sporche… tutte… Le inglesi non si lavano e non si strigliano abbastanza… le francesi sono un po’ più pulite, ma hanno un corpo ed una pelle orribili».
Nonostante questo suo modo di vedere, palesemente sessista e maschilista, visse sempre oscillando tra una bonaria indulgenza verso le sue reiterate condotte libertine ed una spietata automortificazione morale. A tal riguardo, sempre Pearson, evidenzia infatti che «quando cominciò a scrivere, Fleming trasferì questi sentimenti in James Bond, facendogli pagare a caro prezzo i piaceri che si concedeva: letto e bastonate, caviale e torture».
Così come l’affascinante personaggio che aveva creato, Ian amava il lusso, l’eleganza e la vita agiata; anche se non divenne mai uno schiavo del denaro. Tuttavia odiava la mondanità, disprezzava il pettegolezzo, e detestava i ricevimenti. La parola che utilizzava più spesso era “simmetria”. Ed infatti, in tutta la sua vita, cercò sempre di trovare un ordine equilibratore nelle cose che faceva. La cosa che lo terrorizzava maggiormente era la noia e forse, proprio per questo motivo, scelse sempre lavori piuttosto dinamici ed adrenalinici.
La sua prima stabile occupazione di una certa rilevanza fu infatti quella di corrispondente estero dell’agenzia di stampa Reuter. In quel periodo non solo ebbe la possibilità di acquisire una notevole esperienza professionale, ma anche di visitare molti Paesi stranieri, frequentare personaggi influenti ed avvicinarsi all’intrigante mondo dello spionaggio. Nel quale entrò, di fatto, attraverso la Marina Militare britannica, durante la Seconda Guerra Mondiale. In quegli anni acquisì molte delle conoscenze e delle competenze che poi, molti anni dopo, gli risultarono assai utili per ideare e raccontare nel dettaglio le avvincenti gesta dell’agente segreto più famoso del mondo.
Ed infatti, ad esempio, la scena della sfida al tavolo verde tra Bond ed il perfido Le Chiffre, e che è descritta nel suo primo romanzo “Casinò Royal”, gli venne ispirata da una partita a baccarà che Fleming realmente giocò con alcuni nazisti. Per la cronaca, quella sera, ad uscire “ripulito” fino all’ultimo centesimo, fu lui… Nonostante l’alta considerazione della quale godeva presso le alte sfere dell’Ammiragliato inglese, la buona dose di coraggio che dimostrò di avere ed una notevole capacità organizzativa e di memorizzazione, non divenne mai un agente realmente “operativo”. Anche perché, alla fine del periodo di formazione, quando fu messo alla prova e gli venne ordinato di eliminare fisicamente un agente nemico (in realtà si trattava di un’esercitazione, ma lui non lo sapeva), si rifiutò, dicendo «…non ho potuto aprire quella porta. Non me la sentivo di uccidere un uomo in quel modo». Fu scelto, pertanto, per guidare “dall’esterno” una piccola unità segreta di assalto. Cosa che peraltro fece sempre piuttosto bene.
Dopo la fine del secondo conflitto mondiale Fleming prese la decisione di acquistare una casa fuori dall’Inghilterra. Durante uno dei suoi viaggi di lavoro aveva infatti avuto l’occasione di visitare la Giamaica e si era innamorato perdutamente di quel paradiso caraibico, del suo clima, del suo mare e della sua gente. Quella folgorazione lo convinse a comprare, per poche sterline, un terreno sulla costa settentrionale dell’isola, non lontano dalla località di Oracabessa, con l’intenzione di costruirci la casa dei suoi sogni. Ad essa decise di dare il nome “Goldeneye”. Quel luogo magico, che affacciava direttamente sulla spiaggia, costituì sempre, per lui, una specie di rifugio dalla noiosa quotidianità londinese. Lì viveva come un eccentrico gentiluomo giamaicano, frequentando i numerosi milionari che risiedevano nelle lussuose ville che c’erano non lontano dalla sua. Quando vi soggiornava aveva l’abitudine di fare lunghe nuotate e passeggiate, di pescare e soprattutto di oziare davanti ai lussureggianti tramonti tropicali.
La Giamaica, in altre parole, era il suo sogno ad occhi aperti, nel quale – quando gli era possibile – si tuffava volentieri per provare ad estraniarsi dal resto del mondo. Nonostante ciò, conduceva sempre una vita piuttosto sregolata: fumava regolarmente almeno settanta sigarette al giorno, beveva alcolici in abbondanza e scambiava spesso il giorno per la notte. I primi problemi di salute (soprattutto di cuore, al nervo sciatico e renali) non tardarono ad arrivare e condizionarono la sua esistenza sino alla fine. Ad indurlo a vivere in maniera un pochino più prudente ci pensò il matrimonio che, nel marzo del 1952, decise di celebrare con l’ultima delle donne che aveva conquistato: la divorziata Anne Charteris. La quale così descrisse il loro primo incontro: «Era un bell’uomo e aveva un grande fascino. Ma era il suo carattere ad attirarmi; era completamente diverso dalla gente che avevo conosciuto fino ad allora. Non faceva mai una cosa solo per cortesia o per compiacere qualcuno e non voleva mai parlare di sé. Naturalmente quella barriera fu, per me, una sfida a superarla e scoprire cosa c’era dietro… credo di essere piaciuta a Ian perché lo divertivo e perché non gli ponevo obblighi di sorta. Ha sempre detto che ero l’unica persona capace di “fargli ammazzare la giornata” durante le crisi di malinconia».
Nel bagaglio del viaggio di nozze del novello sposo c’erano le bozze di un manoscritto, un romanzo d’avventure dal titolo provvisorio di “Casino Royal”, e che, nelle intenzioni di Fleming, avrebbe dovuto essere un’evoluzione migliorativa del genere letterario del quale Mickey Spillane, all’epoca, era uno dei più famosi ed apprezzati autori.
Ricorda Pearson che «James Bond nacque a Goldeneye la mattina del terzo martedì di gennaio del 1952, quando Ian aveva appena finito di fare colazione, e gli restavano ancora dieci settimane dei suoi quarantatré anni di celibato… aveva già scelto il nome per il suo eroe: amava tenere sul tavolo della colazione il manuale di James Bond “Uccelli delle Indie Occidentali”. Volevo il nome più semplice, più banale, più facile possibile… – disse più tardi – …e James Bond mi sembrò perfetto».
Fleming aveva l’abitudine di scrivere circa duemila parole al giorno e lavorava quotidianamente dalle nove a mezzogiorno. Dopo un bagno nell’acqua cristallina della baia che c’era davanti alla villa, il pranzo ed il riposino postprandiale, nel pomeriggio aveva invece l’abitudine di rileggere quello che aveva scritto. E il giorno successivo riprendeva puntualmente la sua metodica routine letteraria. A chi gli chiese come mai aveva deciso di iniziare a dedicarsi alla stesura di un romanzo, una volta rispose: «Avevo bisogno di distrarmi dallo shock di essermi sposato a quarantatré anni», e, ad un amico, confessò invece che scrivere il libro era stato «un po’ come scavare un’enorme buca nel giardino per il solo gusto di fare ginnastica». Molto probabilmente, in realtà, lo fece non solo perché aveva una naturale predisposizione per la scrittura creativa, ma anche perché, a “Goldeneye”, mentre Anne passava il tempo a dipingere i suoi quadri, lui si annoiava terribilmente.
Fleming era un uomo di grande fantasia; tuttavia, nei suoi romanzi, l’elemento autobiografico è sempre preponderante, soprattutto nella descrizione dei personaggi e delle loro personalità. Osserva infatti a tal proposito acutamente Pearson: «Bond fuma la stessa quantità e la stessa qualità di sigarette che fumava Fleming. Veste allo stesso modo: mocassini neri, camicie di cotone blu scuro, abiti blu di lana secca; è alto come lui, ha la stessa passione per le uova strapazzate, la sauce bearnaise e i portasigarette color piombo, la stessa passione di ragazzetto viziato per il caffè doppio e la spremuta di arancia a colazione».
Ed inoltre possiede la stessa visione esistenziale (maschilista) del suo autore: «Le donne servono per divertirsi». Ma, «nonostante tutti questi punti di contatto, James Bond non è Ian Fleming, bensì la proiezione di quello che Fleming avrebbe potuto o voluto essere… Bond era un personaggio elementare, che faceva da contrappeso al carattere tortuoso del suo creatore… nei suoi contatti col mondo del servizio segreto, Fleming era stato l’uomo dietro la scrivania. Con Bond le volta le spalle, infila la sua Beretta nella fondina di camoscio sotto l’ascella e se ne va, da solo, ad affrontare la morte. Bond è l’uomo che riesce là dove Fleming ha fallito. Non è una spia, ma un uomo d’azione, e benché soffra di quasi tutte le debolezze che Fleming si rimprovera (la paura, il materialismo, la passione per il bere e per le donne), riesce sempre a volgerle a proprio favore e a vincere. Un mito, dunque, per Fleming, come per tutti noi che stiamo a vedere e vorremmo agire, ma non agiamo».
Il primo romanzo trovò rapidamente un editore disposto a pubblicarlo. E Fleming strappò anche un buon contratto (ottenendo infatti il 10% sulle prime 10.000 copie ed il 20% a partire dalle 20.000 copie vendute).
L’esordio, in libreria, avvenne il 13 aprile del 1953. A “Casinò Royal” ne seguirono poi molti altri; ma le vendite, a dire il vero, furono sempre piuttosto modeste, e comunque inferiori a quelle che l’autore aveva sperato ed immaginato. Ian, però, era fermamente convinto che il suo personaggio e le sue storie fossero perfette per il grande schermo, e che la cessione dei diritti cinematografici, alla fine, lo avrebbe reso milionario. Con questa speranza – alternata però con lunghi momenti di sconforto – continuò a scrivere altri romanzi (alcuni dei quali vennero anche pubblicati, con un certo successo, a puntate, su alcuni quotidiani). Contattò persino Alfred Hitchcock per convincerlo a dirigere una delle sue storie. Ma il famoso regista inglese rifiutò la proposta. Offerte interessanti per eventuali trasposizioni tardarono ad arrivare.
Fino a che, nella primavera del 1960, mentre si trovava a Washington, conobbe casualmente l’allora candidato alla presidenza degli Stati Uniti: John Fitzgerald Kennedy. Il quale, quando gli venne presentato Fleming, lo squadrò per un istante e, mentre gli stringeva la mano, gli domandò: «James Bond?». Rotto il ghiaccio, quella sera i due parlarono affabilmente di politica, di spionaggio e di altro.
Quell’imprevisto endorsement di uno degli uomini più iconici del Novecento, attirò finalmente l’attenzione di alcuni produttori (Harry Saltzman e Albert Broccoli), i quali intuirono le enormi potenzialità del personaggio e delle storie che lo vedevano protagonisti e decisero di acquistare i diritti di uno dei romanzi e di finanziare la realizzazione della pellicola. Ad interpretare Bond fu chiamato un giovane attore di origini scozzesi (come del resto lo era anche Fleming), un semisconosciuto Sean Connery.
“Agente 007 – Licenza di uccidere” venne proiettato in anteprima mondiale, a Londra, il 5 ottobre del 1962. Girato con un budget di solo un milione di dollari, ne incassò, soltanto negli Stati Uniti, ben sedici. Dando inizio a quella che è probabilmente la saga cinematografica di maggior successo di ogni tempo.
Ian Fleming non ebbe tempo sufficiente per riuscire a godersi i meritati frutti della sua fervida fantasia letteraria. Morì infatti a Canterbury, a causa di un infarto, all’una di notte del 12 agosto del 1964. E quindi esattamente sessant’ anni fa.
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