Spazio satira
L'appuntamento
04.06.2025 - 13:02
Un indizio preliminare, il luogo. E mi aiutano le parole di Umberto Mastroianni che scrisse del “suo” vulcano: «Qui il vulcano, il fiume, la cava d’argilla sono gli elementi che meglio mi riportano ai miei giovani anni, come la montagna che sovrasta il paese. È scultura viva. Il vulcano che la tormenta e la ferisce, mi aiuta a sgretolarla meglio per ritrovare nel più profondo dei sedimenti i segni di una civiltà scomparsa. L’acqua sorga amara oggi…». Quello che narrava il grande scultore era un vulcano di sentori, finanche di aromi, celato tra le pieghe della montagna, traccia più o meno visibile di una memoria comune. Un vulcano percepibile, non dominante. Esistito ma non esistente. Resta l’argilla millenaria, l’acqua alla fonte, la frattura.
Per Giovanni Mangiacapra la dimensione del luogo – e ciò che ne deriva – non è meno identificativa ma certamente agli antipodi. Il Vesuvio è il vulcano! Senza se e senza ma, senza scorciatoie immaginifiche, senza il sentimentalismo che ne può scaturire. La montagna è lì, sentinella arrogante con la bocca pronta a fagocitare ed espellere la propria figliolanza cresciuta ai margini. Non si sa come. Non si sa quando. Ma ipotizzabile come verità. Ecco allora che anche il rapporto con il tempo – non soltanto con il luogo – si fa accidentale, infettato, mai rassicurante. Giovanni Mangiacapra è nella “terra del fuoco”, non già in quella meno rassicurante dei “fuochi”. Eppure è anch’essa terra tellurica, per ben altri motivi. C’è a prima vista un plausibile filo diretto con la dimensione “feroce” di una pittura che pare attingere proprio dal luogo – dal suo carattere epico e notturno – la propria anima, la forza, l’energia del dire. Ma a ben guardare – nei filamenti e nelle pause del nero e della biacca – non c’è lo squarcio presunto, né il vortice dell’incandescenza, piuttosto un carezzevole confronto.
Quello che attiene alla misura dello sguardo posto al servizio di una dimensione immaginifica del reale. E che alimenta e scuote un viaggio parallelo e paradossalmente “più consono e quasi naturale”. Quello di Mangiacapra è sub terra dicens, sempre ai margini dell’affioramento, come posto in quell’alveo di frontiera che percuote la crosta anziché affogare negli abissi. Alloggia nel Purgatorio della coscienza, pronto a recepire “questioni di grado”, rintocchi e bisbigli, “non valori assoluti”. Sembra risiedere nel luogo della “precarietà” – in quel domicilio di affanni indistinguibili, di volti privi di occhi – che è mondo “di sotto”, effimero ma trepidante. È il mondo delle voci strozzate, pericolanti, di solito disattese. Come fosse un paesaggio cancellato, orfano di appelli e pertanto privo di gradazioni, o meglio di sfumature.
Restano segnali di sopravvivenza – testimoniali – affidati al un primitivismo cromatico, essenziale nella sua formulazione, nei suoi accenti di ombre e bagliori. È un carteggio, quello di Giovanni Mangiacapra, che accoglie – e raccoglie – rifiati, minuscole onde di resistenza, fragili memorie, il dolore inesauribile che si fa condizione di disappunto, mai di colluttazione. Come a dire che c’è “consapevolezza e mediazione” nel racconto pur manifestando il senso del battito. È il suo sillabario posto al servizio della narrazione. E di questa – soltanto di questa – dobbiamo occuparci. Dei suoi protagonisti caritatevoli, della tolleranza, della pietà.
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