Il 16 ottobre del 2007, e quindi esattamente quindici anni fa, la Corte di Cassazione emise la sentenza n. 21748. Essa si pone come una delle pronunzie giurisprudenziali più importanti della storia recente del nostro Paese, e ciò in quanto, attraverso quella storica decisione, vennero fissati alcuni dei principi giuridici più rilevanti in tema di eutanasia. La Suprema Corte era stata chiamata ad esprimersi in merito al caso clinico di Eluana Englaro, ragazza entrata in un coma irreversibile dal 1992 a seguito di un terribile incidente.
La sentenza, più nel dettaglio, affrontò la questione della legittimità – o meno – della possibilità, da parte di un terzo, di poter decidere la "sospensione dell'idratazione e dell'alimentazione con sondino nasogastrico" al posto di un soggetto impossibilitato a farlo personalmente a causa delle sue irreversibili condizioni di salute. A ricorrere in Cassazione era stato il padre della sfortunata ragazza, al quale in precedenza era stata più volte negata dai giudici tale (pur drammatica) possibilità di scelta, che lui invece riteneva giusta e legittima al fine di evitare ulteriori sofferenze alla figlia.
Attraverso la suddetta decisione la Corte stabilì che «ove il malato giaccia da moltissimi anni in stato vegetativo permanente, con conseguente incapacità di rapportarsi al mondo esterno, e sia tenuto artificialmente in vita mediante un sondino nasogastrico che provvede alla sua nutrizione ed idratazione, su richiesta del tutore che lo rappresenta... il giudice può autorizzare la disattivazione di tale presidio sanitario unicamente in presenza dei seguenti presupposti: a) quando la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile, e non vi sia fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre la benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno; b) sempre che tale istanza sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, univoci e convincenti, della voce del paziente medesimo, tratta dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l'idea stessa di dignità della persona.
Ove l'uno o l'altro presupposto non sussista, il giudice deve negare l'autorizzazione, dovendo allora essere data incondizionata prevalenza al diritto alla vita, indipendentemente dal grado di salute, di autonomia e di capacità di intendere e di volere del soggetto interessato e dalla percezione, che altri possano avere, della qualità della vita stessa». Ha deciso di dedicare a questo spinoso argomento – che come è evidente tocca delicatissimi aspetti di tipo etico, religioso, giuridico e politico – il giurista di Sora Valter Iannucci, il quale ha da poco pubblicato, per "Tau Editrice", un breve ma assai interessante scritto, intitolato "Diritto e delitto di Stato" (125 pagine). L'autore dell'impegnativa monografia analizza dettagliatamente il testo della sentenza della Cassazione partendo dalla tradizionale suddivisione tra il "diritto naturale" (e cioè quello che, essendo il frutto diretto della volontà di Dio, quale "Supremo Legislatore", «è impresso nella ragione umana», e, come tale, si erge al di sopra di qualsiasi altra norma), ed il "diritto positivo" (e cioè quello che è il semplice prodotto della volontà dell'uomo, e che quindi – per definizione – è invece inevitabilmente fallace).
Sostiene a tal proposito Iannucci che «il diritto naturale, in quanto di origine divina, può costituire un supporto interpretativo alla stessa legge positiva, perché pone una gerarchia di beni da tutelare in modo assoluto, che devono essere tenuti sempre presenti dall'interprete del diritto positivo». Proprio in forza di tale distinzione, e delle conseguenze morali, religiose e giuridiche che ne derivano, l'autore si mostra sin da subito fortemente critico nei confronti della posizione adottata dagli Ermellini. Ed offre al lettore la sua personale visione, che è fondata su solidi principi cattolici.
Più precisamente egli sostiene che l'uomo, «da immagine di Dio, perché dotato di ragione e volontà, ricava la sua perfezione quando con i suoi atti promulga il diritto naturale, e tale perfezione è somigliare a Dio, perché di Dio sta assumendo in sé la Giustizia; è questa una perfezione che riveste l'uomo di dignità, una sorta di dignità regale, per l'alto compito che essa gli dà: appunto quello di prolungare con i suoi atti volontari la volontà di Dio. Significa che l'uomo, conoscendo il diritto naturale, e, perciò, la Giustizia di Dio, è chiamato a praticarla, oltre che nei riguardi di sé stesso, anche nelle relazioni che intesse nei confronti del suo prossimo». Secondo Iannucci, quindi, «l'eutanasia è sempre da qualificare come ‘"omicidio volontario" ...ed è perciò un atto doloso», il cui movente «è costituito dal proposito di dare o darsi la morte perché considerata un male minore rispetto alla sofferenza che si vuole eliminare».
Tale atto estremo è da ritenere ingiustificabile ed inammissibile in quanto «se non ragionassimo in questi termini dovremmo considerare la vita dell'uomo soggiacente ad una gradualità: ossia sarebbe da considerare meritevole di essere vissuta solo se superasse uno standard qualitativo determinato; dovendo poi chiederci: ma questo standard qualitativo chi lo determina? Questo è inaccettabile... l'eutanasia cancella la fede in Dio e nel prossimo, cancella la speranza nel futuro e l'amore per la vita. L'eutanasia cancella soprattutto la sofferenza, considerandola un male», tuttavia è invece «umano accettare la propria e l'altrui sofferenza, condividerla, far sì che la sofferenza del mio prossimo diventi la mia: in questo modo l'uomo sperimenterà i suoi molti modi di essere uomo». A conforto di tali sue profonde argomentazioni l'autore della monografia richiama anche le parole di Giovanni Paolo II, il quale, in una delle sue encicliche, scrisse infatti che «l'eutanasia è una grave violazione della Legge di Dio, in quanto uccisione deliberata moralmente inaccettabile di una persona. Tale dottrina è fondata sulla legge naturale, e sulla Parola di Dio scritta».
La lettura della interessantissima opera di Iannucci induce a profonde riflessioni su questioni estremamente delicate e complesse, che vanno ben al di là dei risvolti personali collegati alla dolorosa vicenda di Eluana Englaro. Per quel poco che può valere sono tuttavia di opinione del tutto diversa dal colto giurista sorano. A mio modesto avviso, infatti, la "sofferenza" (o quanto meno alcuni tipi di sofferenza) non può mai giustificare il prolungamento "forzato" di un'esistenza che in taluni casi – oggettivamente – non può più essere qualificata come tale. E pertanto sono pienamente d'accordo con Lucio Anneo Seneca, il quale disse: «Non sempre la vita va conservata: il bene non consiste nel vivere, ma nel vivere bene».