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L'intervista

Donne vittime di violenza, il ruolo del percorso rosa

Il ruolo che giocano gli operatori sanitari del pronto soccorso. A tu per tu con la dottoressa Barbara Bauco dell’Asl di Frosinone

Come il percorso rosa salva le vittime di violenza

La dottoressa Barbara Bauco, dirigente medico dell’Unità operativa complessa di Pronto soccorso e Medicina d’urgenza dell’ospedale “Spaziani” di Frosinone

Nelle emergenze di un pronto soccorso, dove le urgenze si susseguono senza sosta, esiste un “percorso rosa” pensato appositamente per le donne vittime di violenza: una rete di assistenza integrata che, passo dopo passo, offre cure mediche, supporto psicologico. Troppo spesso, però, la paura, il senso di colpa, il timore di ripercussioni, la vergogna, impediscono alle vittime di denunciare, rendendo difficile per gli operatori sanitari riconoscere i segnali nascosti dietro ferite apparentemente accidentali.

Nella settimana in cui si celebra la giornata contro la violenza sulle donne, abbiamo intervistato la dottoressa dell’Asl di Frosinone, Barbara Bauco, per comprendere quanto sia fondamentale il percorso rosa, come si fa a individuare le violenze silenziose e quale ruolo giocano gli operatori sanitari nel creare un ambiente di fiducia dove le donne si sentano finalmente al sicuro.
La dottoressa Bauco è dirigente medico dell’Unità operativa complessa di Pronto soccorso e Medicina d’urgenza dell’ospedale “Fabrizio Spaziani” di Frosinone, responsabile dell’unità operativa semplice di medicina d’urgenza e membro del gruppo per il percorso della violenza sulle donne.

Come è nata la sua vocazione per la medicina d’urgenza e in particolare per il percorso di violenza sulle donne?
«La medicina d’urgenza è la mia vita e la violenza sulle donne fa parte della medicina d’urgenza. Ad un certo punto della mia attività lavorativa è stato un binomio quasi scontato per me. Sono donna, sono medico, e mi sono trovata davanti casi di violenza sulle donne. Questo percorso si è poi concretizzato negli anni grazie all’azienda sanitaria ospedaliera di Frosinone, perché a un certo punto ha dato l’input a me, e ad altri colleghi sanitari, di mettere in atto un percorso dedicato alla violenza sulle donne. Tutto è nato dalle linee guida nazionali (Dpcm 24 novembre 2017) con cui si dà indicazione in ambito nazionale di metterle in atto. La Regione Lazio le ha recepite e ha dato incarico a tutte le aziende di calare queste linee guida nazionali su un percorso specifico per il nostro territorio. E così è stato fatto. È un lavoro che prosegue tuttora. Da alcune settimane è in corso la prima revisione di questo percorso: revisione non significa che ci fosse qualcosa di sbagliato, ma che si rendono necessari alcuni aggiustamenti perché le cose, i fenomeni ed i servizi evolvono».

Cosa offre questo percorso?
«Il percorso ci dà lo strumento attuativo, cioè un metodo di lavoro necessario per noi operatori sanitari per poter accogliere e curare la donna vittima di violenza».

Quale caso l’ha segnata nella sua esperienza di Pronto soccorso con vittime di violenza?
«Di casi purtroppo ce ne sono stati tanti, uno di questi mi è rimasto particolarmente impresso. Non si è trattato di una violenza fisica o sessuale: sappiamo bene che esistono anche quella psicologica o economica. Una donna si è rivolta a noi per un malessere dopo un litigio con il compagno, lamentando sintomi molto semplici, vertigini, un po’ di mal di testa. Noi abbiamo attuato le procedure necessarie di primo soccorso. Abbiamo comunicato alla paziente che non era emersa alcuna patologia e che poteva tornare a casa con pochi accorgimenti che le avevamo prescritto. Proprio a quel punto la reazione della donna ci ha allarmate: eravamo io e l'infermiera di sala e abbi C’eravamo io e l’infermiera di sala e abbiamo approfondito il motivo del litigio. Le abbiamo chiesto per quale motivo non fosse contenta di andare a casa, cosa fosse accaduto e il motivo del litigio. Avevamo dato per assodato che si trattasse di una discussione accesa, come capita a volte tra coppie, e invece dal suo racconto è emersa una vera e propria aggressione verbale, tesa a svilire la sua figura, a sottovalutare il suo ruolo di donna e di madre. Quello non era un litigio, ma dovevamo etichettarlo come era, cioè aggressione verbale, una forma di violenza di cui lei non si era resa conto».

Capita spesso, purtroppo, che le vittime non si rendano conto della gravità...
«Non sempre la vittima si rende conto della violenza che subisce nel proprio ambito familiare, nel proprio ambito domestico e, quindi, serve parlarne, serve confidarsi proprio perché qualcun altro, con occhi diversi, può spiegare quello che succede».
Come si fa a riconoscere tempestivamente i casi di violenza domestica al pronto soccorso?
«Ci sono degli alert che noi operatori sanitari dobbiamo valutare. Non sono ovviamente tutti presenti allo stesso modo però ce ne sono diversi».

Alcuni esempi?
«La donna che accede in pronto soccorso a volte viene accompagnata direttamente dall’aggressore, quindi da chi le ha usato violenza, perché tende a monopolizzare l’intervista che l’infermiere fa al triage. Per esempio parla lui, invece di lasciar dire a lei, e questo è un atteggiamento che ci mette subito in allarme. Così portiamo la donna lontano, in un percorso protetto che è dentro il pronto soccorso. Non si lascia più la vittima di violenza nella sala d’aspetto insieme agli altri pazienti. Non si lascia passare tempo. In 15 minuti viene subito visitata. Bisogna essere attenti a non far venire i familiari o l’aggressore a prendere la donna nella sala d’aspetto, distoglierla da quel suo voler raccontare o farsi visitare. Altri alert sono di tipo specifico: ematomi particolari, il fatto che alcune donne raccontano un trauma che però non è compatibile con quello che ci raccontano. Per noi sanitari, dunque, ci sono diverse cose per cui possiamo indagare ulteriormente; farci raccontare il non detto. La donna vittima di violenza a volte non dice».

Quali protocolli o strumenti considera più efficaci per supportare e proteggere le vittime al momento dell’arrivo in ospedale?
«Il protocollo che abbiamo in atto è nato proprio per questo, per prendersi carico della donna vittima di violenza. È un protocollo a tutto tondo. Non è solo un percorso ospedaliero di diagnosi e cura prettamente sanitario, è più che altro una rete. È un percorso interistituzionale tra la Asl di Frosinone, la prefettura, la magistratura, le forze dell’ordine, gli enti locali, l’associazionismo. È questo percorso che ci permette di accogliere la richiesta di aiuto della donna vittima di violenza o dei suoi figli, perché le uniche persone che possono seguire all’interno di questo percorso la donna sono soltanto i figli: quest’ultimi possono essere vittime di violenza diretta o assistita. Le altre persone le allontaniamo, mentre la donna, come detto, viene visitata in una camera protetta dedicata. Nel caso in cui ci sia stata violenza sessuale, viene affidata alla visita e alle cure dei nostri colleghi ginecologi. Viene, quindi, trasferita in ginecologia per completare il percorso. Ci sono il medico e l’infermiera che se ne prendono cura e tutti gli specialisti, che siano altri medici o magari l’assistente sociale, il mediatore culturale o lo psicologo che viene chiamato da noi. Quindi è lo specialista che va dalla donna e non il contrario: la donna deve sentirsi protetta e presa in carico. La presa in carico non avviene soltanto durante il percorso ospedaliero, ma anche dopo la donna viene affidata ad altri».

In che modo la formazione del personale medico-infermieristico può migliorare la presa in carico di questi pazienti?
«La formazione è fondamentale per gli operatori sanitari. Per avere a che fare con donne vittime di violenza bisogna saper comunicare e la comunicazione non è qualcosa che viene insegnato, per esempio, ai medici nel corso di laurea oppure agli infermieri, quindi è uno step che bisogna compiere dopo. È necessario apprendere quel linguaggio di tipo empatico. L’Asl di Frosinone ha messo in campo una formazione proprio per gli operatori dell’emergenza sulla formazione della comunicazione».

Quale messaggio vuole mandare alle donne, che per paura o per vergogna, non denunciano?
«Vorrei far arrivare loro due messaggi. Il primo, quello di informarsi, e il secondo quello di affidarsi. Le donne vittime di violenza sono vittime in modo trasversale; non c’è un ceto sociale più coinvolto dell’altro, quindi l’informazione attiene a tutte queste donne. Informarsi su siti istituzionali, che siano quelli dell’azienda Asl, delle forze dell’ordine, del comune di residenza, del mondo dell'associazionismo è comunque importante. Il secondo messaggio, dicevo, è quello di affidarsi. Per affidarsi la donna deve fidarsi e si può affidare soltanto se conosce cosa l’aspetta. Le vittime a volte non denunciano perché hanno paura, non sanno cosa può accadere ai loro figli, quindi l’informazione prima di ogni cosa. Prendere informazioni di tipo istituzionale è fondamentale per potersi poi affidare a qualcuno».

Come la scuola, e in generale la comunità, possono collaborare con l’ospedale per contrastare la violenza di genere?
«La scuola ha un ruolo fondamentale proprio perché ha un ruolo di formazione e non è delegabile a nessun altro, se non forse alla famiglia. Quindi il ruolo di educazione e di formazione dei nostri ragazzi è assolutamente necessario. Educare anche a che cosa vuol dire violenza, violenza di tutte le specie. Perché noi parliamo di violenza sulle donne, ma in realtà la violenza sulle donne fa parte di una violenza di genere. Quindi, anche noi, come comunità cosa possiamo fare? Possiamo, intanto, non girarci dall’altra parte quando siamo spettatori, oppure possiamo riconoscere una forma di violenza in un nostro conoscente, amico, familiare e anche noi abbiamo, quindi, il diritto-dovere di denunciare in qualche modo».

Quali sono le risorse più utili a cui le vittime possono accedere subito dopo il pronto soccorso?
«Le risorse riguardano sicuramente l’associazionismo, devo dire, privato e pubblico: è una parte fondamentale di questa rete che magari parte dal pronto soccorso ma poi finisce per prendere in carico la donna vittima di violenza e i suoi figli. Le associazioni hanno i centri antiviolenza, hanno le case rifugio; la Regione Lazio individua per ogni Asl di residenza alcune di queste strutture. Quindi la donna, dopo il percorso, se è stata vittima di una violenza fisica, una violenza brutale, sessuale, dopo il percorso ospedaliero, può essere trattenuta in ospedale al massimo 48-72 ore, se non è necessario il ricovero. Questo tempo serve proprio per permettere, a chi poi è sul territorio, di prendere in carico la persona, di non lasciarla, anche e soprattutto se c’è stata una denuncia viene protetta, viene allontanata dal suo nucleo familiare o domestico di violenza e per cui l’associazionismo fa molto in questo senso con tutte le sue figure. Non è soltanto una casa: sono persone, professionisti, ci sono psicologi, ci sono gli avvocati che danno anche il patrocinio legale gratuito, ci sono gli assistenti sociali».

Guardando al futuro, quali innovazioni o cambiamenti auspica per la gestione della violenza sulle donne nel sistema sanitario?
«Il percorso contro la violenza sulle donne che abbiamo in atto, a livello locale nell’Asl di Frosinone, è già attivo e valido anche per un tempo discretamente lungo. Mi auguro che la violenza sulle donne venga inserita proprio in alcuni percorsi che sono strutturali all’interno delle nostre aziende sanitarie, come quello per la gravidanza, per la prevenzione (l’ottobre rosa, ad esempio): mi piacerebbe che le nostre strutture sanitarie avessero un percorso specifico per la violenza sulle donne».

Il 25 novembre in tutto il mondo si celebra la giornata contro la violenza sulle donne cosa è stato fatto finora e cosa dobbiamo ancora fare?
«Abbiamo fatto tanto, però non è ancora sufficiente. Non basta. Dobbiamo fare di più. Prodigarci. La giornata per l’eliminazione della violenza contro le donne nasce dalla convenzione di Istanbul. È stato fatto tanto, ma manca secondo me ancora un percorso di educazione affettiva. Abbiamo bisogno anche di esempi, di esempi buoni per i nostri ragazzi, per chi va a scuola, per noi che siamo grandi, per i professionisti. Tutti noi abbiamo bisogno di esempi che siano nella famiglia, ai quali ispirarci per scardinare ogni tipo di sopraffazione e di violenza».

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