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Giovenale e il teatro del suo tempo

Le “Satire” si leggono come scene drammatiche tra vizi, passioni e degrado. Celebre la critica dell’autore di Aquino al popolo romano, attratto da giochi e bisogni minimi

Giovenale e il teatro del suo tempo

I resti del teatro romano di Aquinum, città che ha dato i natali a Giovenale

Decimo Giunio Giovenale era stato protagonista della puntata del 3 gennaio 2024 di questa rubrica. In quell’articolo, premessi cenni alla sua vita, spiegai cosa fossero le satire, genere letterario, che discendeva da un’arcaica forma di spettacolo, la “satura lanx”, una sorta di varietà di numeri diversi. Concludevo dicendo che le sedici satire di Giovenale rivelano un’attitudine scenica, tanto da poter essere lette come monologhi drammatici, in cui le figure descritte sono tratteggiate come personaggi di una rappresentazione, e in generale l’atteggiamento dell’autore è paragonabile a quello di uno spettatore che vede sfilare davanti ai suoi occhi: la depravazione degli omosessuali, i vizi delle donne, l’infelice condizione degli avvocati, la vanità dei desideri umani, l’inutile sfarzo dei banchetti, la cupidigia dei cacciatori di eredità, i frodatori e gli imbroglioni, l’educazione dei figli, il fanatismo religioso. Tutto giudicando con disprezzo e severità.

Anche la struttura dialogica di diverse composizioni ha un impianto molto teatrale. Ad esempio, nella satira XIV (vv. 256-264), il Nostro proietta la sua opera come uno spettacolo che nessun festival teatrale potrebbe eguagliare, indipendentemente dal genere che viene messo in scena: monstro voluptatem egregiam, cui nulla theatra / nulla aequare queas praetoris pulpita lauti. Giovenale è consapevole ed orgoglioso di superare i ludi in spettacolarità, mentre gareggia con la varietà dei palcoscenici nelle pagine delle sue Satire. Il “pater durus” arrabbiato potrebbe cercare di spaventare i suoi lettori, ma alla fine l’immagine che essi osservano come in uno specchio è proprio la sua.

La “indignatio” di Giovenale si rivolge contro generi, personaggi ed istituzioni teatrali, e non poteva essere diversamente, considerato che gli attori non godevano di particolare stima e considerazione nella società romana, che pure correva ad assistere alle rappresentazioni. Nella satira VI, Giovenale dice di indossare il coturno per intonare un canto bacchico alla maniera di Sofocle, affermando che userà uno stile pedestre, poiché quello tragico sarebbe troppo altisonante per la miseria dei suoi tempi, durante i quali le grandi passioni sono finite e con esse le loro rappresentazioni. Infatti, quel che si va a vedere sono rappresentazioni paraletterarie, specchio più inquietante della società romana, nelle quali tutto è occasione per mettersi in mostra o per assistere morbosamente allo spettacolo delle altrui mostruosità e meschinità. Sulla scena delle Satire si susseguono: donne romane atteggiate ad amazzoni nell’arena (I, 22-23), trionfi allestiti come vere rappresentazioni sceniche (X, 33-46), esecuzioni capitali (I, 155-157).

L’aquinate accusa tanto i “performers” quanto gli spettatori, categorie entrambe accomunate da indegnità morale: l’attore non è più veicolo di alcun messaggio edificante; lo spettatore frequenta il teatro solo per vedere sulle scene (e quindi per rivivere in maniera sublimata) le proprie pulsioni emotive. E anche il potere imperiale non è estraneo al clima di decadenza morale. Celebre è l’espressione, naturalmente di tono sprezzante e sarcastico, “panem et circenses” (satira X, v. 81; ma vi accenna anche nella satira VIII, v. 117), con la quale egli stigmatizzava da un lato il comportamento del potere imperiale di “distrarre” il popolo, dandogli quel tanto che bastava per i bisogni materiali e allettandolo con i giochi del circo, e dall’altro la dabbenaggine del popolo, che si accontentava di vedere i gladiatori combattere e scannarsi nell’arena.

Secondo Giovenale la causa della decadenza e della corruzione risiede nella cronica indigenza degli autori drammatici. Nella satira VII (vv. 77-78) leggiamo l’amarissima constatazione che i drammaturghi sono troppo impegnati a sopravvivere alla fame per poter trovare ispirazioni più genuine. La responsabilità è dei facoltosi nobili che, perduta ogni aspirazione al mecenatismo, preferiscono investire il loro denaro in divertimenti costosi, piuttosto che finanziare i poeti. Una parte di negligenza è da cercarsi anche nell’insensibilità del pubblico, che rifugge opere più profonde (che sono costate impegno al poeta), preferendo lavori di infimo livello. Al riguardo nella medesima satira, Giovenale ci racconta di come Stazio, pur avendo attirato folle plaudenti alla “recitatio” della Tebaide, fu costretto proprio da quelle folle, ignare della sua fatica, a vendere un pantomimo sul mito di Agave al danzatore Paride.

L’attore Paride di cui parla Giovenale aveva raggiunto, come spesso accadeva ai divi di pantomimo, un grande successo, al punto da divenire l’amante della moglie di Domiziano, che per questo lo fece giustiziare. Giovenale testimonia l’abbandono scomposto e lascivo delle fans, incluse le nobili matrone, alle suggestioni erotiche della danza. Infatti, nella VI satira (vv. 63 e ss.) ci racconta le reazioni del pubblico femminile alle esibizioni di Batillo, un altro celebre pantomimo, rivale di Pilade: «Quando Batillo interpreta la pantomima di Leda con la flessuosità sensuale del corpo, Tuccia non trattiene più la vescica; Apula emette improvvisamente, come quando fa l’amore, un gemito lungo e lamentoso; Timele spalanca gli occhi». Vedremo in una prossima puntata, cosa Giovenale pensava degli altri generi teatrali, come il mimo e l’atellana.

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