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L'intervista

Franco Fava, un campione in pista e... con la tastiera

Straordinario mezzofondista negli anni '70 e poi cronista ispirato e puntuale

Franco Fava, un campione in pista e... con la tastiera

Atleta formidabile, ai tempi in cui l’Italia aveva delle punte straordinarie ma un movimento complessivo non paragonabile a quello delle grandi potenze europee. Erano le due Germanie, l’Urss e la Gran Bretagna a dettar legge in Europa, poi c’erano ovviamente gli Stati Uniti a far la voce grossa a livello mondiale.

Franco Fava, nato nel 1952 a Roccasecca, è stato un mezzofondista e fondista di straordinario valore. Basti pensare che ha detenuto contestualmente i record italiani di 3000 piani, 3000 siepi, 5000, 10000 e 20000 (distanza atipica).
Quando ha smesso con l’atletica, ha… iniziato a raccontarla. E anche come giornalista ha mostrato un talento non comune, al “Corriere dello Sport”.


Franco, come e quando scopri che puoi diventare un campione dell’atletica leggera?

«A metà degli anni 60 a Roccasecca non c’erano impianti e perciò, come tutti, giocavo a calcio, pur non avendo grande abilità specifica. Correvo tanto e un posto in squadra me lo guadagnavo. Ma la disciplina che più mi affascinava era il ciclismo. Al Bar Sport di Roccasecca si parlava delle imprese di Taccone e Massignan e quando mio nonno mi regalò una bici Rizzato ebbi cura di trasformarla in bici da corsa e, montato un 52X13, di nascosto andavo ad allenarmi con mio fratello Antonio ed altri ciclisti. Il primo sport praticato con gioia e anche con una certa attitudine fu il ciclismo, benché i miei non volessero, perché era pericoloso allenarsi per le strade».


Da ciclista a podista. Per merito di chi?

«Il mio scopritore fu Enzo Leone, un ex atleta di livello nazionale, più volte campione italiano dei 3000 siepi. Enzo aveva avuto informazioni su un ragazzo promettente, che era mio fratello Antonio. Lui correva con l’Atletica Cassino, società messa su da Pietro De Feo, altro personaggio importante, appassionato vero e uomo perbene. Fu per sua iniziativa che fu istituito un gemellaggio con una società di Zehlendorf, quartiere di Berlino, allora in Germania Ovest. C’era il muro a pochi metri da noi, ma non ne avevamo contezza. Ho un bel ricordo di quegli anni e di quelle esperienze. Tornando a Leone, fu lui a darci le prime tabelle di allenamento, poi quando mio fratello intraprese gli studi di Medicina, le attenzioni si spostarono su di me. Mi prese per la corsa una passione straordinaria. Pensa che uscendo da scuola mi facevo 20 km a piedi tutti i giorni, sulla Casilina. D’inverno due volte al mese percorrevo un circuito Roccasecca - Cassino - Atina per un totale di 45 Km, persino più di una maratona».

I primi riscontri agonistici importanti?

«A livello scolastico vinsi gare riservate ai nati nel ’51, ma io ero del ’52 e da regolamento non avrei potuto competere. Fecero un’eccezione e nella fase successiva mi ammisero in una serie extra. Vinsi anche quella, con margine. Nel ’68 presi parte alle Leve Nazionali del Corriere dello Sport. Io vinsi i 2000 metri e un mio coetaneo di Barletta, Pietro Mennea, vinse i 200».

Nel 1972 la tua prima Olimpiade. Come ci arrivasti?

«In extremis, perché il minimo di partecipazione lo centrai proprio all’ultima gara utile, peraltro stabilendo il mio primo record italiano sui 3000 siepi. Era quella la disciplina sulla quale concentravo i miei sforzi all’epoca e così a vent’anni mi presi la soddisfazione di disputare la mia prima Olimpiade, a Monaco di Baviera».

Due anni dopo, agli Europei di Roma, un quarto posto dolceamaro…

«Sì, quella fu forse la mia gara più bella, ma anche quella che suscitò in me legittime recriminazioni. Chiusi con il tempo di 8’18”85, che era il quinto tempo mondiale all time, ma non bastò per salire sul podio. Allora non c’erano ancora gli africani a dettar legge nel fondo. Io ero molto amico di Malinowski, lo sfortunato polacco che morì in giovane età per un incidente stradale. Anche fuori dalla pista capitava che ci vedessimo, l’ho anche portato a visitare il Cimitero di Cassino nella parte riservata alle vittime della seconda guerra mondiale, dove giacciono alcuni soldati polacchi. Per quell’Europeo lui temeva Garderud, lo svedese, che era più veloce nei finali. Decidemmo così di provare una gara di gran ritmo e fui io a prendermi la responsabilità di tirare il gruppo per i primi 2 km. Malinowski vinse, Garderud fu secondo e a sottrarmi il terzo gradino del podio fu un tedesco, Karst. Una beffa, ma corsi come meglio non avrei potuto».

A Montreal la tua seconda Olimpiade ti vide protagonista nella maratona...

«Sì, anche lì avevo francamente ambizioni da podio. Chiusi all’ottavo posto, ma le mie aspettative alla partenza erano ancora più importanti. Devo dirti però che il mio feeling con la maratona non è mai stato eccezionale. Era una gara un po’ troppo lunga per le mie caratteristiche».

Sei stato comunque un atleta incredibile, il solo capace di detenere tutti i record italiani delle lunghe distanze. Ti inorgoglisce?

«Certo, fa piacere. Pensa che sui 20000 metri il mio tempo è ancora il record italiano, ovviamente perché non è una distanza che si corra così di frequente. È stata una bella e soddisfacente carriera, ma nel finale feci scelte di allenamenti non premianti e così il mio ritiro è stato abbastanza precoce. Pretesi troppo dal mio corpo e dalla mia volontà».

Molti anni dopo Fabrizio Donato, un altro ciociaro, si copre di gloria internazionale, vince gli Europei e conquista un bronzo olimpico nel triplo. Un pizzico di fastidio per aver perso l’ipotetico trono di ciociaro più forte di sempre?

«No, solo soddisfazione per i bellissimi risultati di Fabrizio, col quale ho un buon rapporto. Devo dirti, per essere sincero al 100%, che non io, ma il mio papà, forse, un pizzico di fastidio lo ha provato, perché notava come dalla stampa fossero più esaltate le performance di Fabrizio rispetto a quel che era successo con me. Ma era anche un’altra epoca. E lui era il mio primo tifoso, anzi il secondo, perché il primo a credere in me e a raccogliere articoli che parlassero delle mie vittorie fu mio nonno».

Franco Fava fu anche il primo di una scuola che avrebbe conquistato allori e trofei in serie. Dopo di te Scartezzini, Carosi, Lambruschini e Panetta solo per limitarci alle siepi, e i grandi fondisti a cominciare da Ortis, per proseguire con Cova, Antibo, Mei e i maratoneti Bordin, Poli, Baldini. Eravamo i keniani d’Europa. Ora un po’ soffriamo in queste specialità… Perché?

«L’atletica va per fasi. Oggi siamo più forti nei salti e nella velocità, mentre il mezzofondo vive una fase di transizione. Consideriamo però che adesso l’Africa è assolutamente dominante nelle lunghe distanze. Infrangere il loro dominio è complicato».

L’Italia sta facendo benissimo nelle competizioni giovanili e ha vinto due volte il campionato Europeo per nazioni, ex Coppa Europa. Ti stupisce questa leadership nel nostro continente?

«Credo che l’effetto Tokyo sia stato determinante. Gli ori che sono arrivati, va detto anche inattesi, in quelle Olimpiadi, hanno fatto da traino. Poi c’è maggiore tutela dei tecnici federali e inoltre c’è stato l’effetto pandemia, quando il solo sport praticabile era l’atletica. Ritengo che molti elementi abbiano contribuito ad aiutare la crescita del nostro sport. Certamente siamo progrediti».

Doualla è un fenomeno di precocità, ma abbiamo anche Succo, Valensin, Castellani, Pagliarini, Nappi, i fratelli Inzoli. Mai siamo stati così ricchi di talenti. Su chi punti per il futuro?

«Rispondere Doualla è facile e ovvio. Lei merita davvero un discorso a parte, perché ha potenzialità infinite. Personalmente l’unico piccolo dubbio risiede nel fatto che tecnicamente è già quasi perfetta. Parte bene, ha una meccanica di corsa impeccabile e perciò la sua crescita sarà legata all’aumento di esplosività e di massa muscolare che naturalmente consegue al passare degli anni. Potrebbe portarci davvero lontano. Tra tutti gli altri io scelgo Elisa Valensin. La sto seguendo da un paio di anni e devo dirti che la vedo destinata a grandi cose. Probabilmente allungando le distanze, perché anche se adesso si esprime bene come velocista, io in prospettiva la vedo quattrocentista e addirittura ottocentista».

Tortu e Kaddari, due fenomeni da giovanissimi, ora entrambi in un limbo. Come lo spieghi?

«Ci sono analogie tra questi due atleti, che in effetti sembrava avessero margini di progresso e obiettivi poi non confortati dai risultati ottenuti. Filippo ancor più dello straordinario 9”99 ha compiuto il proprio capolavoro con l’ultima frazione della 4x100 di Tokyo. Ora fatica a replicare nei 200. Ipotizzo possa essere stata anche l’esplosione di Jacobs a creargli qualche problema di natura psicologica. Poi personalmente ritengo che un papà allenatore tolga qualche stimolo, ma è un mio parere. Anche Dalia sembra un pochino involuta, pur restando un’ottima atleta. Attendiamo entrambi al riscatto».


Hai parlato di Tokyo. Ti stupì di più l’oro sui 100 di Jacobs o quello della staffetta veloce?

«L’oro sui 100. E a tal proposito ti posso riferire un aneddoto. Io stavo seguendo le gare dalla tv e quando vidi che nelle tre semifinali la velocità più alta in assoluto l’aveva toccata Jacobs con 43,7 Km/h, mandai un messaggio a Paolo Camossi. Qualche mese dopo, intervistandolo per la rivista “Atletica”, mi disse che tra i segreti della vittoria di Marcell c’era anche un messaggino da lui ricevuto da qualcuno che non ricordava dopo la semifinale e mostrato a Jacobs, che disse: “Ma allora posso vincere”. “Paolo, quel messaggio te l’ho inviato io”, gli ho detto».


I mondiali sono alle porte: quante medaglie possiamo vincere, alla luce del forfait di Stano e della forma non ottimale di Jacobs e dei velocisti?

«Credo che si possano conquistare cinque o sei medaglie, di che colore non so dirti. I nomi sono quelli noti: i nostri giovani lunghisti, Iapichino e Furlani, la Palmisano nella marcia, poi Nadia Battocletti, Fabbri e Diaz. Speriamo in qualche sorpresa ulteriore, ma salire su un podio mondiale non è cosa che si possa improvvisare».


Raccontare una vittoria è bello e stimolante. Ma raccontare una sconfitta quanto è difficile?

«Io ho sempre paura di caricare troppo di negatività il mio racconto. Può essere normale nel raccontare una sconfitta dare ancor più addosso all’atleta che ha deluso ma credo non sia giusto. Ritengo anzi che si debba cercare di analizzare se anche in una sconfitta ci sia stata una qualche positività».

Doping e antidoping. Dopo la DDR, i cinesi del nuoto, Armstrong nel ciclismo, lo sport rischia di perdere credibilità. Ma il doping andrà sempre più veloce dell’antidoping?

«Possibile, ma si stanno facendo enormi passi avanti. Già la decisione di congelare le provette per dieci anni può portare a scoprire chi bara, perché magari tra qualche anno le tecniche dell’antidoping potranno essere più raffinate e fornire risultati più concreti».


Il tuo rapporto con la Ciociaria?

«Strettissimo. Non potrebbe essere altrimenti. Torno quando posso e sono molto vicino alla podistica Antonio Fava, club che porta il nome di mio fratello, un bravissimo cardiologo che dello sport fu praticante e grande appassionato. La Ciociaria è la mia terra».

Se la tua vita fosse un film, che titolo avrebbe?

«Dalle Alpi alle Piramidi. Mi è piaciuto tanto viaggiare, sperimentare. Pensa che mi sono allenato perfino ai 4000 metri delle Alpi boliviane, nonché a Livigno, al Passo dello Stelvio. Ho guardato sempre il mondo e i luoghi con grande curiosità. E ho ancora voglia di raccontare l’atletica e quel che c’è intorno».

E allora non ci resta che augurare buon viaggio a questo grande interprete dello sport più bello e più vero: prima in pista, poi in tribuna stampa, con lo stesso amore e la stessa voglia di far bene. Franco Fava e l’atletica, un binomio indissolubile.

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