Frosinone
06.05.2025 - 10:00
Il materiale sequestrato da carabinieri e polizia nel corso dell’operazione scattata il 7 dicembre 2016
Il modello Scampia importato al Casermone, fissato il processo d’appello. Si terrà il 18 giugno per i trenta imputati coinvolti nell’operazione antidroga “Fireworks”, condotta il 7 dicembre del 2016, da carabinieri e polizia.
In primo grado, ad aprile del 2023, il tribunale di Frosinone aveva condannato a sette anni e mezzo ai frusinati Luigi Fortuna, 51 anni, Massimo Reffe, 40, Gionni Spada, 47, Palma Spinelli, 41; a sette anni Stefano Di Gennaro, 31, Christian Iaboni, 34, Fabio, 44, e Stefano, 52 Grossi, Vincenzino Liburdi, 57, Stefano Mizzoni, 42, e Emanuele Troiani, 45; a sei anni e otto mesi Yuri Crecco, 44, Bruno, 51, e Saverio Grandi, 49, Massimiliano Grossi, 54, Diego Quattrociocchi, 46, Christian Reffe, 32, Roberto Roseppi, 47, Gianmarco Stellati, 31, Sandro Terragitti, 64, Matteo Verdicchio, 29, accusati di essere delle vedette, Ciro Cioffi, 74, e Serafino Marco Lombardi, 58, nel ruolo di depositari.
Per la consegna di cocaina all’associazione, nel periodo tra marzo e giugno del 2015, inflitti sei anni a Victor Manuel Ferreira Trigo, 66, venezuelano, quattro anni e mezzo a Mario Sarnino, 68, e Simona Fiacchi, 54, di Valmontone. Per la compravendita, la consegna e la custodia di 665 grammi di cocaina, sei anni a Giovanni Cortina, 46, e un anno in continuazione con una vecchia condanna agli albanesi Polidor Selimay, 41, e Shefit Rrapi, 54. Per la vendita, a cadenza settimanale, di mezzo chilo di cocaina, otto anni per Diego Cupido, 53, coinvolto anche nell’altra grande inchiesta antidroga, quella degli “Intoccabili”.
A dicembre del 2016, polizia e carabinieri eseguirono 43 misure cautelari (tra carcere e arresti domiciliari) per un totale di 53 indagati. Il grosso, tra cui capi e promotori dell’associazione, aveva optato per il rito abbreviato e, ormai da tempo, è stato condannato in via definitiva. A processo, con il rito ordinario, in 25 erano accusati di ricoprire il ruolo di vedette o depositari dello stupefacente, accusati anch’essi di far parte dell’associazione a delinquere.
Secondo l’accusa, l’associazione era caratterizzata da una rigida gerarchia, divisione del lavoro, riconoscimenti per chi si comportava bene e perfino progressioni di “carriera”: le vedette erano considerate l’essenziale base operaia per la copertura dei turni di lavoro e per il raccordo fra le varie porte d’ingresso al Casermone e la zona di spaccio, mentre i custodi avevano il ruolo di responsabili dei magazzini per assicurare la presenza dello stupefacente e, previa preparazione delle dosi, le costanti forniture alla finestrella adibita allo spaccio al minuto.
A fondamento delle accuse, oltre la sentenza di condanna in abbreviato, le intercettazioni e i foglietti manoscritti sequestrati durante alcune perquisizioni. Nel corso del processo di primo grado l’attenzione era andata anche sulle regole ferree impartite ai sottoposti, alle sanzioni disciplinari, alle ritorsioni contro le spie nonché - ma in questo caso l’accusa è caduta - al reinvestimento dei proventi illeciti in ristoranti in Italia e in Spagna.
In una delle udienze chiave del processo di primo grado a sintetizzare l’intera operazione era stato ascoltato l’allora capo della squadra mobile di Frosinone Carlo Bianchi: «Da un chilo di cocaina ricavavano 5000 dosi. Facevano 10.000 dosi a settimana», aveva dichiarato facendo i conti in tasca all’organizzazione. Poi, quando gli affari andavano bene, c’era anche un riconoscimento economico, la “botta”: «il premio di produzione scattava ogni 10.000 euro guadagnati con 100 euro in più agli addetti al turno». Ma non sempre le cose andavano bene. Nel corso di un’intercettazione si sente uno degli indagati (che poi ha definito la propria posizione in abbreviato) dire: «Abbiamo fatto schifo, abbiamo fatto solo 16.000 euro».
Previste pure delle sanzioni nei confronti degli affiliati che non rispettavano le regole: nel corso delle indagini era emerso che a uno che non si era presentato perché era andato allo stadio per vedere la partita del Frosinone era scattata una multa. Stessa cosa per chi consumava stupefacente sul posto di lavoro.
L’attenzione delle vedette era massima per evitare qualsiasi incursione a sorpresa da parte delle forze dell’ordine. Nel corso di una di queste si sentono due vedette urlare “carmela”, ovvero la parola in codice per segnalare l’arrivo delle forze dell’ordine.
Durante un’incursione un agente sotto copertura arriva fino alla finestrella. In quell’occasione sono sequestrati due borselli da dove vengono recuperati soprattutto i biglietti della contabilità. E da lì gli investigatori traggono ulteriori elementi per il proseguo dell’inchiesta.
Tra le regole principali imposte il portone chiuso e il paletto, controlli incrociati anche ai capiturno, arrivare 10 minuti prima per assicurare la continuità della sorveglianza. Mentre chi doveva assentarsi da un turno già concordato doveva avvisare con un anticipo di almeno 12 ore.
Ci fu poi il caso dei lampioni rotti per ritorsione: si pensava a un informatore, che in realtà non c’era, avrebbero poi appurato gli investigatori.
Il collegio difensivo è composto dagli avvocati Christian Alviani, Antonio Ceccani, Tony Ceccarelli, Maurizio Frasacco, Rosario Grieco, Marco Maietta, Carlo Mariniello, Riccardo Masecchia, Nicola Ottaviani, Gaetano Tanzi, Luigi Tozzi, Paola Francesca Valeri e Giampiero Vellucci.
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