Spazio satira
Rubriche
04.07.2025 - 15:00
All’inizio dell’estate del 1785 il Congresso degli Stati Uniti d’America si riunì per discutere la possibilità di adottare una valuta nazionale unica. Dopo intensi dibattiti, il 6 luglio 1785, e quindi esattamente 240 anni fa, l’assemblea parlamentare statunitense individuò il dollaro come “unità monetaria standard”. Successivamente, e cioè dal 1792, venne poi scelto come valuta ufficiale federale a tutti gli effetti.
Il dollaro statunitense è ormai da molti decenni il volto stesso del potere economico americano, e di fatto identifica la centralità raggiunta ad ogni livello, e in molti ambiti, dal grande Paese nordamericano già nel XX secolo. Tuttavia, a ben vedere, la celebre divisa valutaria di colore verde è ben più di un semplice simbolo a stelle e strisce. È, infatti, non solo il più importante e diffuso strumento economico-finanziario, ma anche il più dinamico propulsore della “globalizzazione” (fenomeno che, attraverso intricatissime transazioni in ogni parte del mondo, distribuisce, seppur in maniera spesso non uniforme, la ricchezza umana sul nostro pianeta).
Non tutti sono a conoscenza che l’origine del nome “dollaro” non è americana, bensì europea e deriva dalle antiche monete d’argento boeme, chiamate “Thalers”, termine che venne poi anglicizzato in “Dollars”, e che peraltro compare addirittura nel “Macbeth” di William Shakespeare.
Il dollaro venne probabilmente “inventato” in Scozia nel XVII secolo, diffondendosi però, nei decenni successivi, anche nella penisola iberica, dove fu infatti adottato come moneta corrente. Da qui arrivò nel Nuovo Mondo, dove, poco alla volta, finì per soppiantare la sterlina inglese, che fino a quel momento era stata la principale valuta degli scambi commerciali nordamericani. L’ascesa inarrestabile del dollaro a livello planetario avvenne tuttavia soltanto nella seconda parte del Novecento. Subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale c’era urgente bisogno di individuare un’unità valutaria sufficientemente forte, affidabile e diffusa, che potesse contribuire a risollevare le sorti dell’economia internazionale, che era stata messa a dura prova dal conflitto. Il dollaro venne ritenuto perfetto per quello scopo, e la cosa, agli stessi Stati Uniti, fece buon gioco, soprattutto perché costituiva, agli occhi di tutti, un chiaro esempio di supremazia. Tale condizione di forza, alla fine degli anni ottanta del secolo scorso, venne successivamente amplificata ed ulteriormente agevolata dal crollo dell’ideologia comunista europea e dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica. E, a ben vedere, non è stata poi scalfita, in tempi più recenti, nemmeno dall’avvento della moneta unica europea.
Basti pensare al fatto che, sino ad oggi, il dollaro è la valuta utilizzata per portare a compimento più dell’80% delle transazioni che coinvolgono valute straniere; che la simpatica faccia di George Washington “viaggia” instancabilmente nel mondo su circa 17 milioni di banconote da un dollaro che vengono stampate ogni giorno; che, nei portafogli di persone che vivono ed operano in ogni angolo del pianeta, stanno circolando, in questo momento, oltre 12 miliardi di dollari; e soprattutto che, il 70% del denaro detenuto dalle banche centrali di tutti i Paesi del mondo, è costituito da dollari. Anche se la cosa può sembrare strana, nonostante quello Usa sia ancora il più grande ed importante mercato del pianeta, circa la metà dei dollari che esistono, circolano fuori dal territorio fisico degli Stati Uniti d’America. Questa curiosa circostanza è dovuta non solo all’incontestabile “fascino economico” che il biglietto verde da sempre possiede anche al di fuori dei confini di quel paese, ma anche a comprensibili ragioni pratiche: effettuare transazioni senza essere costretti a scomode (e spesso non convenienti) operazioni di cambio rende infatti decisamente più agevoli - e veloci - gli scambi commerciali. Peraltro, molti degli stati che fanno affari con gli Usa, e che utilizzano i dollari come la principale valuta, rappresentano, di fatto, una sorta di silenzioso e subdolo “cavallo di Troia” dell’economia yankee. Paesi dalla crescente ricchezza, come la Cina, hanno invero accumulato una enorme quantità di riserve monetarie in dollari. Con le quali, spesso, con l’incentivo di alti tassi di interesse, investono in titoli fruttiferi statunitensi (soprattutto i cd “treasures”), attraverso i quali, il governo americano, a sua volta, è in grado di finanziare il suo costoso sistema sociale, amministrativo e militare. Tale circostanza fa sì che il paese asiatico possieda una parte non marginale del gigantesco debito pubblico americano. Cosa che ovviamente costituisce una forma indiretta di controllo dell’intera struttura economica statunitense.
Tuttavia è vero anche che, senza l’economia yankee (buona parte dei beni di consumati negli Usa provengono infatti dalla Cina), quella di Pechino subirebbe un inevitabile, forte rallentamento. Essa è infatti notevolmente legata al destino ed alla “salute” dei mercati nei quali esporta le sue merci… a buon mercato. E questo aspetto la rende assai dipendente dal dollaro, e quindi vulnerabile. Tale scenario dimostra ancora una volta che i destini economici (e non solo) di ciascuno di noi, sono inesorabilmente collegati tra di loro. Ed è davvero impossibile riuscire a sciogliere questo inestricabile vincolo. Nel bene o nel male. Facciamocene una ragione…
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