Spazio satira
Coppa dei Campioni
30.05.2025 - 14:00
Talvolta, la sorte di una persona, può arrivare ad essere decisa da un nonnulla, magari da una semplice lettera dell’alfabeto. Nella tarda primavera del 1985 avevo appena compiuto ventuno anni, ed uno dei sogni più grandi della mia spensierata giovinezza era quello di poter riuscire ad esultare per la conquista della prima Coppa dei Campioni da parte della Juventus. Avevo infatti mal digerito la delusione della sconfitta patita in finale, due anni prima, ad Atene, contro l’Amburgo, che avevo visto in televisione.
L’occasione di poter esaudire il mio desiderio si presentò alla fine di maggio di quell’anno. Stavolta l’avversario sarebbe stato il Liverpool, squadra che appena dodici mesi prima aveva battuto, nell’ultimo atto del torneo, la Roma di Roberto Pruzzo, di Bruno Conti e Paulo Roberto Falcão. All’indomani della semifinale, nella quale avevamo superato il Bordeaux, io ed altri tre amici juventini di Frosinone ci mettemmo subito alla ricerca dei biglietti per la finalissima. Di curva, perché altro – all’epoca – non potevamo permetterci. Destinazione Bruxelles. Alla fine riuscimmo a procurarceli, al prezzo dell’equivalente di 300 franchi belgi. Quando li avemmo tra le mani l’emozione che provammo fu fortissima. Erano cartoncini anonimi, di un verdolino stinto, sui quali c’era scritto: “Stade du Heysel”. La sorte ci assegnò posti che erano situati nel cosiddetto “Bloc M”, ed a me capitò quello numero 18336. Il viaggio in treno verso il nord Europa risultò piuttosto lungo e faticoso, ma il giovanile entusiasmo per un’esperienza che si prospettava “avventurosa”, e la speranza di riuscire a tornare a casa con la coppa, ce lo rese meno disagevole.
L’atmosfera che si respirava nella capitale belga, prima della partita, era abbastanza tranquilla. Tifosi inglesi e tifosi italiani si “sfioravano” infatti, lungo le strade, senza particolari problemi di convivenza, e nulla lasciava presagire quello che di lì a poche ore sarebbe purtroppo successo. Una volta arrivati nei pressi dell’Heysel, però, l’atmosfera cominciò a farsi decisamente più “elettrica”, e ci rendemmo immediatamente conto della pericolosa approssimazione con la quale l’importante evento era stato organizzato. Una delle prime cose che notammo fu che diversi gruppi di sostenitori del Liverpool – che peraltro già davano l’idea di essere piuttosto alticci – si avviavano verso gli ingressi dello stadio portando tranquillamente con loro intere cassette di birra. Ciò con l’inerte noncuranza dei numerosi gendarmi locali (buona parte dei quali erano a cavallo).
Rimanemmo poi piuttosto sorpresi dal fatto che l’ingresso al nostro settore della curva veniva consentito ai tifosi attraverso una sola porta, nemmeno tanto larga. Questa discutibile modalità di accesso determinò ovviamente una grande ressa, alimentò parecchio nervosismo, ed indusse molti a scavalcare il muro di cinta dello stadio senza grandi difficoltà. Cosa inaccettabile, per una finale di Coppa dei Campioni… Una volta entrati, notammo che le gradinate erano assolutamente fatiscenti. I gradini degli spalti – privi dei seggiolini – si presentavano in condizioni pietose, ed il calcestruzzo con cui erano realizzati gli spigoli dei gradoni si sbriciolava in maniera preoccupante, anche solo poggiando le mani. Nella nostra curva (per fortuna) c’erano soltanto tifosi juventini; mentre, in quella opposta (denominata, sui biglietti con la lettera “Z”), convivevano pericolosamente sostenitori italiani ed inglesi senza apparenti divisioni di sicurezza.
Quella scellerata decisione, unita all’elevato tasso alcolico di alcuni dei sostenitori britannici, innescò la tragedia. Seppur distanti ci rendemmo subito conto dei primi tafferugli. Che in un primo momento non davano l’idea di essere particolarmente gravi. Poi, ad un tratto, notammo il lancio di alcuni razzi fumogeni, ad altezza uomo, da parte dei tifosi inglesi, verso la zona della curva che era occupata dagli italiani. A quel punto lo scontro tra le opposte fazioni divenne inevitabile. Ricordo distintamente che gli hooligans iniziarono a “caricare” gli juventini, i quali furono costretti ad arretrare, per sottrarsi all’aggressione. A seguito di ciò, i tifosi bianconeri che si trovavano più all’esterno della curva, vennero inevitabilmente schiacciati dalla pressione degli altri. Che, quando divenne insostenibile, fece cedere il muretto di contenimento della (fatiscente) struttura, determinando la caduta di molti sventurati dal parapetto.
All’inizio non ci rendemmo conto di quello che era successo. Vedemmo infatti soltanto centinaia di tifosi bianconeri della curva “Z” riversarsi all’improvviso sulla pista di atletica che circondava il terreno di gioco. La cosa, in un primo momento, sembrava finita lì. Poi, poco alla volta, e visto che la situazione non sembrava risolversi, iniziammo a capire che qualcosa di grave era invece successo. All’epoca non c’erano i telefonini, e ci trovavamo in un Paese straniero. Era impossibile avere chiara e piena contezza dell’accaduto. Qualcuno attorno a noi, però, per fortuna si era portato dietro una radiolina, e, sintonizzandosi sulla frequenza AM, riuscì a captare la radiocronaca della Rai, venendo così a sapere che, a causa degli scontri, c’erano stati dei morti tra i tifosi italiani.
La notizia, che in un lampo si sparse per tutta la curva, ci raggelò. Fu, quello, il momento più delicato. Nel nostro settore iniziò a serpeggiare una strana sensazione, un inquietante miscuglio di sconcerto, rabbia, paura, impotenza. In molti della nostra curva volevano infatti rompere le recinzioni sottostanti per andare a vendicare la vile aggressione. Per fortuna questo non avvenne, e ciò anche grazie al fatto che le autorità belghe, nel frattempo, avevano fatto arrivare centinaia di gendarmi allo stadio, che erano stati posizionati, in assetto di guerra, lungo tutto il perimetro del campo. Io ed i miei amici immaginavamo lo stato d’animo dei nostri familiari, che in Italia stavano certamente vivendo, davanti alle televisioni, momenti di grande, comprensibile preoccupazione per la nostra sorte. Ma non potevamo fare nulla per riuscire a tranquillizzarli, per riuscire a comunicare loro che – per fortuna – stavamo tutti bene. Anche perché a nessuno veniva consentito di lasciare lo stadio. Seppi poi che un mio cugino di Roma era stato spedito, in piena notte, alla Farnesina, per provare ad avere notizie. Invano.
L’Uefa ritenne opportuno far giocare comunque quella maledetta partita, nonostante la tragedia. Fu, quella, a mio modesto avviso, una decisione giusta ed opportuna, che probabilmente evitò che i morti potessero essere molti di più. Dopo la fine dell’incontro, la premiazione, ed il giro di campo dei giocatori con la coppa tra le mani (che forse sarebbe stato meglio evitare), attendemmo a lungo prima di poter defluire fuori dal luogo della tragedia. Mentre aspettavamo il nostro turno eravamo piuttosto preoccupati, perché non avevamo alcuna idea della situazione che avremmo trovato all’uscita. Temevamo – peraltro – di ritrovarci a stretto contatto con gli inglesi, soprattutto alla stazione di Bruxelles. La sorte, però, ci venne incontro. Un gruppo di tifosi dello Juventus Club di Polla (in provincia di Salerno), con il quale avevamo socializzato sugli spalti durante quelle drammatiche ore, si offrì di farci tornare in autobus con loro. Avevano infatti giusto quattro posti liberi. Quell’improvvisa ed imprevista soluzione ci evitò ulteriori rischi.
Salimmo sul pullman, ed iniziò la lunga traversata verso casa. Nonostante la vittoria, nessuno parlava. Tutti ci rendevamo perfettamente conto di quello che era successo. Eravamo attoniti. Il silenzio era raggelante. Durante la notte l’autista si fermò in un autogrill, per una sosta. Probabilmente eravamo in Germania. Dato che nel locale era presente un telefono pubblico, mi misi in fila per provare a chiamare casa e riuscire così a tranquillizzare i nostri familiari. Ricordo distintamente l’impazienza dell’attesa del mio turno, la preoccupazione di non riuscire a prendere la linea, il timore di scoprire gli effetti della tensione nelle voci dei miei cari, le prime pagine dei giornali che erano accanto alla cassa, con le drammatiche immagini della tragedia. Un’atmosfera surreale. Il telefono squillò per diverse volte. Poi, la voce di mio padre, rotta dall’emozione, non appena mi riconobbe. Lo tranquillizzai e gli dissi di comunicare anche alle famiglie dei miei amici che stavamo bene e che stavamo tornando a casa.
Arrivammo al casello di Frosinone a tarda notte. Era il 30 maggio del 1985. Esattamente quarant’anni fa. L’abbraccio con i miei stemperò la comprensibile tensione. Mi sentivo in colpa per aver fatto vivere loro una giornata tremenda. Eppure, di responsabilità, non ne avevo. Quei momenti drammatici, quelle violente sensazioni, quelle emozioni fortissime, nonostante il tempo trascorso, mi tornano periodicamente alla mente. Sono indelebili. Sono un tatuaggio nell’anima. Un eterno monito. Ma soprattutto la pratica dimostrazione del fatto che la nostra vita è appesa al sottilissimo filo del destino, della casualità, della volontà divina. E, talvolta, solo alla lettera del settore della curva di uno stadio maledetto…
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