Spazio satira
2004-2024
27.12.2024 - 21:00
Alle ore 07.58 del 26 dicembre 2004, e quindi esattamente venti anni fa, un violentissimo terremoto di magnitudo di 9,1 sulla scala Richter (la cui scossa principale ebbe una durata di oltre 8 minuti…) colpì l’Oceano Indiano al largo della costa nord-occidentale di Sumatra. Quel terribile movimento tellurico – che è considerato come il terzo più potente di sempre da quando esistono strumenti sismologici affidabili – fu talmente forte da determinare l’improvvisa frattura della placca indo-asiatica. Quest’ultima, dopo essersi incuneata sotto quella birmana, provocò un innalzamento verticale del fondo oceanico di circa dieci metri, circostanza che a sua volta scatenò un catastrofico “tsunami” che dopo aver colpito le zone costiere dell’Indonesia, dello Sri Lanka, dell’India, della Thailandia, della Birmania e del Bangladesh (per poi raggiungere addirittura le sponde della Somalia e del Kenia, distanti circa 4.500 chilometri dall’epicentro…), determinò la morte di oltre 230.000 persone.
È stato stimato che lo “tsunami” del 2004 sprigionò un’energia totale superiore a quella consumata negli Stati Uniti d’America in un mese e che il terremoto fu in grado di influire addirittura sulla rotazione terrestre, diminuendo – di fatto – la durata di un giorno di circa tre µs. Il termine “tsunami” è di derivazione giapponese, e risulta composto dai caratteri “tsu” (che significa porto), e “nami” (che invece vuol dire onda). Tali fenomeni naturali sono prevalentemente generati da terremoti sottomarini, da eruzioni vulcaniche (come ad esempio quella del 1883 del vulcano Krakatoa, in Indonesia) o da cedimenti di grandi quantità di rocce. Tuttavia – seppur più raramente – possono essere provocati anche dall’impatto di corpi celesti sulla superficie marina. Basti infatti pensare all’asteroide che – 65 milioni di anni fa – cadde nell’attuale Golfo del Messico, e precisamente a Chicxulub.
Quest’ultimo evento non solo scatenò una serie di enormi maremoti le cui gigantesche onde si propagarono radialmente per migliaia di chilometri, ma fu anche la causa dell’estinzione dei dinosauri. L’altezza delle onde di uno “tsunami” può variare da pochi centimetri a centinaia di metri, e può essere influenzata da numerosi fattori, come la geometria delle zone costiere, la profondità dell’acqua e la forma del fondale oceanico. Nelle aree dove il fondale marino si restringe (come ad esempio in insenature o baie), l’energia del maremoto viene inevitabilmente amplificata, circostanza che determina un notevole aumento dell’altezza dell’onda. Tale fenomeno, sinteticamente noto come “amplificazione costiera”, è, più nello specifico, influenzato da altre due manifestazioni fisiche di tipo dinamico: lo “shoaling” ed il “focusing effect”.
Il primo si verifica quando le onde che si avvicinano alla riva aumentano la loro altezza mano a mano che diminuisce la loro velocità. Il secondo è, invece, l’effetto della convergenza dell’energia dell’onda verso aree orografiche più ristrette. A titolo di curiosità può ricordarsi che, quest’ultimo, è lo stesso che, in presenza di particolari condizioni meteorologiche, contribuisce alla formazione delle gigantesche onde che si possono talvolta ammirare nella località portoghese di Nazarè, e che ogni anno attraggono campioni di surf (e curiosi) da tutto il mondo. Lo “tsunami” del 2004 risultò particolarmente devastante proprio per questo motivo. Ed infatti, quando le onde raggiunsero la baia di Bengala, trovarono sul loro percorso una morfologia costiera particolarmente “favorevole”, che amplificò notevolmente l’ampiezza e l’altezza delle onde. Tale circostanza determinò la devastazione delle coste del Bangladesh e delle regioni circostanti. Basti del resto pensare che, secondo le ricostruzioni, il moto ondoso, in alcuni punti, raggiunse un’altezza tra i trenta ed i cinquanta metri, e penetrò per diversi chilometri nell’entroterra. Nonostante l’altezza di tali onde possa sembrare (ed in effetti è…) enorme, è bene rammentare che la più alta onda di tsunami della quale si abbia scientifica contezza è quella che si verificò, il 9 luglio del 1958, in una remota regione dell’Alaska.
Quel giorno, un terremoto molto forte di circa 8 gradi di magnitudo sulla scala Mercalli (e, quindi, molto meno intenso di quello indonesiano del 2004…), innescò una frana di circa trenta milioni di metri cubi di terreno, che caddero in blocco nella stretta insenatura della baia di Lituya (che è sita lungo la faglia di Fairweather). Tale movimento franoso, con un meccanismo che poi non fu molto dissimile da quello che si verificò nella diga del Vajont il 9 ottobre del 1963, determinò un megastunami la cui onda raggiunse l’incredibile altezza di 524 metri! La gigantesca massa d’acqua provocò la devastazione pressoché totale dell’area della baia americana; che però – per fortuna – era (ed è) sostanzialmente disabitata. Ed infatti il cataclisma causò “soltanto” cinque vittime e numerosi feriti. Tra i fortunati sopravvissuti ci furono il capitano di un peschereccio e suo figlio di sette anni, i quali, sebbene trascinati per centinaia di metri dalla forza della gigantesca onda, riuscirono però a salvarsi miracolosamente, riportando solo minime lesioni. Il movimento dell’acqua e dei sedimenti da essa trasportati fu talmente forte che sollevò ben 396 metri di ghiaccio lungo l’intero fronte del ghiacciaio Lituya all’estremità nord di Gilbert Inlet.
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