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Il personaggio

Il genio che amava gli eccessi

Il 30 settembre avrebbe compiuto cento anni. Chi è e come ha vissuto Truman Capote. Fuori dagli schemi, esagerato, istrionico. “Colazione da Tiffany” e “A sangue freddo” restano i suoi capolavori

scrittore pixabay

Il 30 settembre del 1924, e quindi esattamente cento anni fa, nacque, a New Orleans, quello che è considerato come uno degli scrittori più importanti ed influenti del Novecento: Truman Streckfus Persons (meglio noto, al pubblico, con lo pseudonimo di Truman Capote). Figlio unico di una famiglia piuttosto sconclusionata, visse un’infanzia estremamente tormentata, segnata in maniera profonda dal divorzio dei suoi genitori, e resa poi particolarmente dolorosa dalla scellerata mancanza di affetto da parte della madre (che talvolta lo chiudeva in una camera di albergo mentre si intratteneva con i suoi spasimanti e che poi si suicidò) e del padre, uomo sempre assente – in ogni senso – e privo di particolari virtù morali («I miei divorziarono quando avevo quattro anni. Fu un divorzio complicato, con molta acrimonia da ambedue le parti, ed è principalmente per questo che passai la maggior parte della mia infanzia sballottato da un parente all’altro tra la Louisiana, il Mississippi e le campagne dell’Alabama, frequentando saltuariamente scuole a New York e nel Connecticut»).

Capote scoprì ben presto la sua straordinaria propensione verso la composizione narrativa («Ho cominciato a scrivere all’età di otto anni. Intendo seriamente. Così seriamente che non avevo il coraggio di dirlo a nessuno. Passavo ore a scrivere e non ho mai fatto leggere niente a un insegnante... Quando si tornava a casa da scuola e gli altri bambini facevano le loro cose, io mi mettevo a scrivere. Tre o quattro ore al giorno, proprio come altri si esercitavano al piano. Era un’ossessione)», e – anche grazie a numerose letture giovanili – acquisì rapidamente una solida tecnica letteraria, che risultò peraltro impreziosita da un ricchissimo lessico. Queste qualità lo aiutarono dapprima a vincere numerosi premi, poi a pubblicare le sue prime opere ed infine a diventare uno degli scrittori americani più famosi ed apprezzati del XX secolo. Sin da quando era piccolo, la sua prodigiosa intelligenza colpì le persone che lo conoscevano.

Tanto è vero che, raccontò una volta, «credo che gli insegnanti mi trovassero un tipo strano. Non si capacitavano del fatto che sapessi leggere così straordinariamente bene, mille volte meglio di chiunque altro nella mia classe... Spedirono équipe di psichiatri a fare test d’intelligenza in tutto il paese, e c’era un gruppo che si occupava di tutto il Sud. Arrivarono in Alabama, nella scuola dov’ero io all’epoca, e feci questo test. Il giorno dopo tornarono e mi chiesero di ripeterlo, allora lo rifeci e ottenni un punteggio incredibilmente alto. Mi chiesero di andare a New York per sottopormi a un test speciale all’Horace Mann School, e così ci andai, accompagnato da mia zia. Era la prima volta che andavo a New York. Avevo otto anni. Dopo quel test non frequentai mai più una scuola pubblica normale, ma solo scuole speciali». La sua insegnante di liceo, ricordandolo, una volta disse: «Ho sempre pensato che Truman fosse un genio e che dovevamo essere comprensivi per questo. Scrivere era l’unica cosa che gli interessasse. Le altre materie semplicemente non esistevano per lui». Ed infatti, lui stesso, ebbe a confessare candidamente: «So fare le addizioni, ma non le sottrazioni».

Non tutti sanno che Capote ha addirittura ispirato uno dei personaggi di quello che è considerato come uno dei romanzi più belli ed importanti del Novecento (“Il buio oltre la siepe”, di Harper Lee). Quest’ultima, infatti, viveva con la sua famiglia nella stessa cittadina dell’Alabama dove risiedeva anche Truman, ed i due, accomunati da una profonda passione per la letteratura, divennero molto amici. In quel periodo Capote stimolò la Lee a scrivere la storia che aveva in mente, e lei, in qualche modo, lo ringraziò per il prezioso sostegno creativo inserendo, nel contesto narrativo della sua celebre opera, la figura del bambino Dill Harris, che assomigliava, in molti aspetti, a Truman. La notorietà di Capote è prevalentemente legata a due romanzi: “Colazione da Tiffany” (che venne pubblicato nel 1958) e “A sangue freddo” (rivoluzionario esempio di giornalismo narrativo, che era basato su una drammatica storia vera, uscito nel 1965). Tuttavia il suo esordio letterario avvenne, nel 1948, con “Altre voci, altre stanze”, che l’Herald Tribune di New York definì «la più emozionante opera prima di un giovane scrittore americano da anni».

Per descrivere sé stesso una volta Capote disse: «Non sono ancora un santo. Sono un alcolizzato. Sono un tossicomane. Sono un omosessuale. Sono un genio». La frase, sebbene condita da evidenti sfumature autoironiche, descrive e sintetizza assai bene l’originalissima personalità del grande autore statunitense il quale visse sempre, per tutta la sua esistenza, in bilico tra l’equilibrio e la follia, tra l’ordinarietà e la trasgressione, tra una spumeggiante socialità ed intimi momenti di solitudine. Le sue opere si caratterizzano per una spiccata originalità, e ciò in ossequio alla sua personalissima visione creativa; riteneva infatti che il vero artista (ed in particolare quello “fuori dal comune”, come lui si considerava), per essere riconosciuto come tale, dovesse sempre riuscire a lasciare un segno indelebile nei suoi tempi. Tanto è vero che, in occasione di un’intervista, affermò che «un grande artista sa prendere qualcosa di molto ordinario e, grazie alla pura creatività e alla forza di volontà, trasformarlo in un’opera d’arte». Era superstizioso (in particolare modo verso le suore), detestava la California (pensava tra le altre cose che Hollywood fosse «la superficie della luna» camuffata, o «il nessun dove di dovunque»), e regalava trancianti giudizi su molti suoi colleghi («Saul Bellow è una nullità come scrittore. Inesistente»), e personaggi famosi che frequentava («Rod Steiger è il peggior attore che sia mai esistito. Solo a sentirne il nome mi viene da vomitare»).

Forse, anche per questo motivo, pur essendo molto amato da pubblico e critica, era anche molto odiato. In occasione di un’intervista gli venne chiesto cosa avrebbe voluto fare se non avesse fatto lo scrittore, e lui rispose: «Se avessi potuto fare qualcos’altro, mi sarebbe piaciuto fare l’avvocato. Sarei stato un avvocato magnifico. Non so quanto sarei stato felice, però». Siamo sinceramente contenti per la sua scelta. Non solo perché, così facendo, il mondo non ha perso un grandissimo romanziere (e sceneggiatore); ma anche perché – ne siamo certi – scegliendo la professione forense sarebbe stato certamente molto meno contento della sua scelta di vita.

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