Spazio satira
Pagine di storia
05.07.2024 - 20:56
Prima dell’inizio, o durante le premiazioni delle principali manifestazioni sportive internazionali, vengono normalmente eseguiti gli inni nazionali. Quello del nostro Paese è, come noto, “Fratelli d’Italia” (anche se, a dire il vero, il titolo originario era invece “Il canto degli italiani”). Il testo venne scritto dal giovanissimo poeta genovese Goffredo Mameli. Giosuè Carducci rivelò che quelle appassionate liriche furono composte «l’8 settembre del ’47, all’occasione di un primo moto di Genova per le riforme e la guardia civica». Mameli, dopo aver scartato l’idea di poterle adattare a musiche che erano già esistenti, decise di inviarle al compositore Michele Novaro, con l’intento di fargliele musicare.
Quest’ultimo si mise subito al lavoro e, in breve tempo, scrisse poi la melodia che noi tutti conosciamo. Così ricordava il momento della genesi di quel celebre spartito: «Mi posi al cembalo, coi versi di Goffredo sul leggio, e strimpellavo, assassinavo colle dita convulse quel povero strumento, sempre cogli occhi all’inno, mettendo giù frasi melodiche, l’una sull’altra… lo scrissi su d’un foglio di carta, il primo che mi venne alle mani: nella mia agitazione rovesciai la lucerna sul cembalo, e per conseguenza anche sul povero foglio: fu questo l’originale dell’inno Fratelli d’Italia».
Per scrivere le strofe ed il ritornello, Mameli – che all’epoca aveva soltanto vent’anni ed era un convinto “giacobino” – si lasciò ispirare sia dal testo de “La Marsigliese” (tanto è vero che il versetto “stringiamoci a coorte” in qualche modo rievoca il “formate i vostri battaglioni” che si legge invece nel testo del canto di vittoria francese), sia da quello dell’inno greco (perché contiene infatti numerosi riferimenti all’antichità classica). La prima esecuzione di “Fratelli d’Italia” avvenne a Genova il 10 dicembre del 1847. Tuttavia, a causa del fatto che il suo autore era un noto “mazziniano”, la sua esecuzione venne ben presto proibita, prima dalla polizia sabauda, e poi da quella austriaca.
Nonostante tale lusinghiera affinità politica ed ideologica, Giuseppe Mazzini, dopo averlo ascoltato, manifestò a dire il vero il suo scarso gradimento nei confronti della composizione (e soprattutto verso la musica di Novaro, da lui ritenuta “troppo poco marziale”…). Mameli era nato a Genova il 5 settembre del 1827, ed era figlio di Giorgio, un ammiraglio della Marina Sarda, e della marchesa Adelaide Zoagli Lomellini. Al fine di riuscire a dedicarsi pienamente al suo giovanile ed appassionato impegno politico, Goffredo decise di interrompere ben presto i suoi studi universitari. Assieme a Nino Bixio partecipò ai moti risorgimentali genovesi del 1847-1848. Conobbe Mazzini in occasione delle “Cinque Giornate di Milano” del 1848; e poi anche Garibaldi, che seguì sino a Roma quando fu poi proclamata la Repubblica, e cioè nel febbraio del 1849. L’eroe dei due mondi gli voleva molto bene, tanto è vero che, una volta, lo definì, in maniera molto affettuosa, “il vate guerriero, l’incomparabile Mameli”. Ed in effetti, il giovane poeta genovese, si distinse per valore e coraggio, combattendo contro i francesi a Palestrina, a Velletri ed a Roma, sul Gianicolo.
Nel corso di quest’ultima battaglia, ingaggiata da Garibaldi per cercare di conquistare il casino dei Quattro Venti di Villa Corsini e Porta San Pancrazio, rimase purtroppo seriamente ferito ad una gamba (qualcuno sostiene dalla lama della baionetta di un suo commilitone, altri invece, e sono la maggioranza, da una fucilata esplosa dai soldati francesi). Così, lo stesso Garibaldi, ricordò quel drammatico momento: «Goffredo, che io avevo trattenuto al mio fianco per la maggior parte di quel giorno siccome aiutante mio, mi chiese supplichevole di lasciarlo procedere avanti ove più ferveva la pugna, sembrandogli ingloriosa la posizione presso di me. Dopo pochi minuti egli mi ripassava accanto, trasportato gravemente ferito, ma radioso e brillante nel volto, fiero di aver potuto spargere il suo sangue per il suo Paese. Non scambiammo una parola. Ma gli occhi nostri s’intesero nell’affetto che ci legava da tanto tempo. Egli proseguiva come in un trionfo». Le sue condizioni apparvero subito gravi, tanto è vero che il medico che lo prese subito in cura, al nosocomio “Trinità dei Pellegrini”, così descrisse il momento del suo ricovero: «Ferito il giorno 3 giugno nei primi momenti dell’azione, fu portato all’ospedale privo di sensi. Io lo vidi dopo tre ore circa, in uno stato quasi di stupefazione. Non era bene in sé stesso, e cadeva in gravi e frequenti deliqui. Pallido e sparuto nel volto, quasi avesse sofferto più mesi di malattia: nei pochi momenti in cui non gli mancava la coscienza di sé accusava dolori spasmodici in conseguenza della ferita».
A causa della grave infezione che purtroppo conseguì al ferimento, alla cancrena che progressivamente gli aggredì l’arto, e nonostante l’inevitabile (ma inutile) amputazione della gamba, il 6 luglio del 1849, e quindi esattamente centosettantacinque anni fa, Goffredo Mameli cessò di vivere. Subito dopo il decesso, per nasconderla ai nemici, la salma fu celata nella chiesa di Santa Maria in Monticelli, e successivamente in quella “delle Stimmate”; ma, nel 1872, venne finalmente sepolta nel cimitero monumentale del Verano. Poi, molto tempo dopo, fu trasferita nel sacrario sottostante l’aero quadriportico del Mausoleo Ossario Garibaldino, dove riposano i caduti risorgimentali del 1849.
A lui dobbiamo il testo dell’inno che accompagna sempre le cerimonie istituzionali ufficiali, e – molto spesso – le imprese sportive dei nostri connazionali. Più o meno tutti quanti noi conosciamo a memoria le strofe ed il ritornello che lo caratterizza e la melodia che ci ispira a cantarlo. Un po’ come avviene per qualsiasi “pezzo” pop di grande successo. Forse proprio per questo motivo, riferendosi a “Fratelli d’Italia”, il grande cantautore calabrese Rino Gaetano, con non comune arguzia, una volta disse: «Michele Novaro incontra Mameli e insieme scrivono un pezzo tuttora in voga!».
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