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La storia

Stefano Tacconi: «La mia vita tra primo e secondo tempo»

L’ex portiere bianconero rivela aneddoti e segreti . Un viaggio tra Gianni Agnelli, Platini, Boniperti e Schillaci. Poi la lunga battaglia dopo l’aneurisma cerebrale del 2022

Stefano Tacconi

Nove anni alla Juventus conditi da due scudetti, una Coppa Italia ma soprattutto grandi successi europei con una Coppa delle Coppe, una Supercoppa Uefa, una Coppa dei Campioni, una Coppa Intercontinentale e una Coppa Uefa.
Stefano Tacconi è un nome scritto in maniera indelebile nella storia bianconera: un’icona, un simbolo, un idolo di una generazione intera che ha esultato ad ogni sua parata, dal 1983 al 1992. In occasione del lancio del suo libro, “L’arte di parare”, abbiamo incontrato nel B&B “La Rena” di Anagni lo storico ex portiere bianconero, che negli ultimi anni si è trovato ad affrontare una sfida contro l’aneurisma cerebrale subìto nell’aprile del 2022 e un lunghissimo percorso riabilitativo durato quasi tre anni.

Stefano, è vero che alla Juventus ti ha voluto Boniperti?

«Boniperti è stato un grande calciatore e poi un grande presidente. Agnelli aveva una tenuta a Umbertide, in Umbria: ha messo lui a dirigere tutto e dopo qualche anno ha triplicato il fatturato. Così lo ha messo a fare il presidente della Juventus. Era un manager straordinario. Ma molto tirchio».

Hai preso anche qualche multa con lui…

«Molte. Si è divertito con me. Però sapevamo che le multe andavano in beneficenza quindi faceva meno effetto».

È vero che hai dovuto tagliare i capelli appena arrivato a Torino?

«Sicuro. Avevo una capigliatura alla Abatantuono. Mi ha fatto mettere la cravatta e la giacchetta. Io non mi sentivo a mio agio. L’ho fatto un po’ tribolare ma l’ho reso anche il presidente che ha vinto tutto».

E invece le famose telefonate alle 6 di mattina di Gianni Agnelli le hai ricevute anche tu?

«Alle 5.15. Aveva già letto tutti i giornali. Io pensavo fosse uno scherzo e l’ho mandato “a quel paese”. Poi mi ha richiamato il suo segretario e mi ha detto che era l’Avvocato».

Appena arrivato alla Juventus hai detto che avresti fatto dimenticare Zoff con la
tua spavalderia. Ci sei riuscito?

«Penso di esserci riuscito. Era quello il modo per dare un colpo alla vecchia generazione. Ma è andata bene perché è rimasto con me un anno ad allenarmi».

Ti ha allenato prima come preparatore dei portieri e poi come tecnico. Che rapporto avevate?

«L’ho avuto anche con la Nazionale Olimpica, ci siamo qualificati alle Olimpiadi dopo tanti anni che la Germania dell’Est dominava. Poi dopo l’ho avuto anche come allenatore della Juve, e mi ha fatto anche capitano. È stato fondamentale averlo come avversario, allenatore e amico».

Alla Juventus hai avuto la fortuna di giocare anche con Michel Platini. Chi era dentro e fuori dal campo?

«È lui che ha avuto la fortuna di giocare con me (ride, ndr). Me lo dice sempre quando mi vede: “Meno male che c’eri te, sennò non vincevo niente”. Eravamo amici, lui fumava le mie sigarette, non le comprava mai. Ci siamo divertiti, abbiamo avuto la fortuna di giocare nella Juventus dopo che ha perso la Coppa dei Campioni ad Atene: se l’avesse vinta, non so se avrei vinto quello che poi ho vinto io. Invece c’è stata questa reazione particolare, Boniperti ha avuto lo stimolo, li ha castigati un po’ tutti».

A proposito di Coppa dei Campioni, l’hai vinta nel 1985. Un ricordo “dolceamaro” quello della serata dell’Heysel…

«Non era facile giocarla, siamo stati obbligati a farlo per motivi di sicurezza. Se non avessimo giocato sarebbe successo il peggio. Non sapevamo tutto quello che era accaduto: non pensavamo a tutti quei morti. Abbiamo giocato con il cuore pesante. Abbiamo fatto un tiro in porta, invece loro hanno cercato di vincerla a tutti i costi».

Hai alzato la prima Coppa dei Campioni della Juventus: ad oggi sono solo due. Una grande soddisfazione…

«Ho alzato la prima Coppa dei Campioni, la prima Coppa delle Coppe, la prima delle Coppe Intercontinentali e la prima Supercoppa europea. Se non ci fossi stato io, il museo non lo avrebbero mai fatto».

Tu sei l’unico portiere ad aver vinto tutte le cinque coppe europee…

«Non si possono neanche più vincere perché la Coppa delle Coppe non esiste più. Quindi sono abbastanza tranquillo. Nel 1990 ho vinto le due coppe che mi mancavano, la Coppa Italia e la Coppa Uefa: siamo riusciti a vincerle, abbiamo fatto anche il record perché non abbiamo mai preso un gol fuori casa».

A proposito di gol presi, c’è una rete storica presa su calcio di punizione (di Maradona, ndr)…

«Sono passati quarant’anni. Ho fatto bene a farla entrare. Di gol bellissimi ha fatto quello e un altro. Anche lui lo ricordava divertendosi».

Hai giocato anche con Schillaci. Una grande amicizia la vostra...

«Ero capitano della Juve, quando lo vedevo un po’ triste e spaesato, lo portavo a cena. Avevamo un rapporto particolare. Era divertentissimo, felice della vita. Era uno al quale piaceva andare nei club, uscivamo insieme… È stato un ragazzo importante nella mia vita, mi ha lasciato dei buoni ricordi».

Possiamo dire lo stesso di Vialli…

«L’ho avuto con me in Nazionale. Purtroppo è morto quando ero in coma».

Tu per fortuna sei qui con noi, stai bene. Che percorso è stato quello della malattia?

«Sono quasi tre anni di purgatorio. In più ho due badanti (la moglie e il figlio Andrea, ndr) che mi rompono dalla mattina alla sera, mi dicono di non bere e non fumare… Il percorso sta andando avanti, oggi cammino con la stampella, l’equilibrio è quello che è. Però posso raccontarlo».

Sei tornato anche allo stadio…

«Sono tornato allo stadio, peccato sia stata la partita più brutta della storia (Juventus-Napoli, ndr). Una noia mortale».
Però ci siamo emozionati un po’ tutti vedendoti abbracciare Mattia Perin…
«Perin è venuto alla Juventus dal Genoa, abbiamo fatto il percorso inverso. Una scelta sua particolare che io non avrei mai fatto. È andato a Torino a fare la panchina, in rossoblù era titolare».

E lo stadio come ti ha accolto?

«L’affetto del pubblico per un malato credo sia la miglior medicina possibile. In quel periodo i tifosi erano fuori dagli ospedali. Fa sempre piacere: chi semina raccoglie, ho seminato bene a differenza di Zenga…».

Il mondo del calcio ti è stato vicino…

«Assolutamente. Mio figlio teneva il mio telefono, hanno chiamato tutti. È la cosa più bella».

C’è stato qualcuno che ti è stato più vicino di altri?

«Totò chiamava spesso. Il venerdì del suo funerale dovevamo incontrarci a Montecatini insieme. Poi Tardelli, Marocchi… Ho sentito la loro vicinanza».

Se tornassi indietro cambieresti qualcosa nella tua carriera?

«Assolutamente no. Forse conterei fino a dieci prima di dire le cose».

Di cosa parli nel tuo libro, “L’arte di parare”?

«Racconto i due tempi: uno, quello da giocatore, e poi il secondo, quello della malattia. Sicuramente può essere d’aiuto alle persone che hanno avuto quello che ho avuto io. Si può sempre reagire e migliorare. Io ho vissuto anche i supplementari e i rigori, è stata dura vincerla».

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