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L'intervista

Marco Gabriele prima arbitro. E poi dirigente nella A di calcio

È stato l’unico arbitro ciociaro a dirigere partite di Serie A prima di svolgere incarichi da dirigente con Frosinone e Lazio

Marco Gabriele non ha bisogno di presentazioni. E’ stato il primo e ad oggi l’unico arbitro ciociaro a dirigere in massima serie, poi è stato dirigente di club importanti, con compiti ovviamente collegati alla sua esperienza nel settore arbitrale.

La chiacchierata non può che partire da una data fatidica, quella del 30 aprile 2000. C’è Cagliari-Bologna, arbitra il signor Marco Gabriele della sezione di Frosinone. Sensazioni…
«Un sogno che si avvera. Avevo iniziato a fare l’arbitro nel 1981 e quindi dopo 19 anni si realizzava quella che era la mia massima aspirazione. All’epoca le carriere erano molto più lunghe, di regola si arrivava in A intorno ai 33-34 anni e si diventava internazionali a 38. Ora invece si arriva un po’ prima, perché l’Uefa proprio in quella fase storica cominciò a mettere dei paletti e invitò l’Italia ad adeguarsi agli altri paesi europei. Per me era il coronamento di un sogno. Tornavano alla mente tutti gli anni precedenti: i sacrifici, la passione, la determinazione. E tutto aveva davvero un senso».

Gli arbitri sono calciatori mancati o la passione per il fischietto preesiste?
«In qualche modo tutti gli arbitri sono calciatori mancati, perché la passione originaria è per il calcio. Il primo tentativo è sempre quello di diventar protagonisti in campo, poi si può valutare strada facendo che esistano alternative per nulla trascurabili. Va detto, in tutta sincerità, che diventare arbitro significava anche avere accesso gratuito agli stadi grazie al famoso tesserino, e che inizialmente quella non fosse l’ultima delle motivazioni. Risparmiare i soldi del biglietto per un giovane poteva essere una cosa allettante. Di certo però ci voleva anche una passione specifica».

«Quali sono le qualità precipue per diventare un ottimo arbitro?
«Anzitutto la predisposizione al sacrificio, perché la prima selezione avviene proprio sulla disponibilità che viene richiesta. Bisogna accettare la designazione e di conseguenza rinunciare alle serate con gli amici. Farlo per una passione particolare qual è di fatto l’arbitraggio è già una cosa non comune. Poi a fare davvero la differenza è la personalità, perché le capacità tecniche sono simili per tutti. Saper gestire situazioni ambientali difficili ed essere autorevoli ma non autoritari è il segreto principale di un buon direttore di gara».

Il ruolo ha subito una trasformazione evidente. Dagli arbitri con la pancetta degli anni 50-60 agli atleti attuali. Passaggio obbligato per adeguarsi alle maggiori capacità atletiche dei calciatori, ma non è che si sta esasperando questo aspetto a discapito della tecnica arbitrale?
«No, le capacità tecniche non sono mai secondarie. I primi arbitri atleti sono arrivati nel campionato ‘99-‘00, quando sono iniziati i ritiri a Coverciano. Non ci si limitava più al test di Cooper che misurava la velocità e la capacità aerobica, ma si introdusse lo Yo-Yo test, che misurava la forza esplosiva e la capacità di svolgere attività intensa con recuperi brevi. Si trattava di garantire la capacità di arrivare alla fine della partita con la lucidità necessaria. Considerate che in quegli anni c’erano dei calciatori con doti atletiche straordinarie, i primi grandissimi atleti per doti di corsa e di esplosività».

Negli anni in cui arbitravi in categorie che fornivano meno garanzie di protezione da parte della forza pubblica hai mai avuto paura?
«Non solo qualche volta ho avuto legittimamente timore, ma addirittura una volta sono stato aggredito. Parlo di una gara giocata ad Afragola, nel 1991, ed era una finale di ritorno della Coppa Italia juniores nazionale. La reazione immediata fu quella di smettere e la manifestai ai miei superiori, che mi concessero una pausa di riflessione, al termine della quale mi convinsero a continuare».

Qual è stato il più bel complimento che hai ricevuto nel corso della carriera arbitrale?
«Ritengo che il più significativo sia quello che mi fece Sacchi, prima di Torino-Parma. Mi disse infatti che avevo fatto bene a mandare a quel paese Caracciolo, in risposta ad un suo analogo invito. Disse che i giocatori avrebbero dovuto cominciare ad imparare le buone maniere. Diversamente da lui la pensarono i dirigenti del settore arbitrale, perché quella risposta per le rime mi costò due mesi di sospensione, visto che le moviole e le TV la documentarono in modo piuttosto chiaro».

Dover giudicare in pochi attimi è una necessità del ruolo di arbitro. Nella vita però prima di valutare una situazione per fortuna di solito c’è più tempo. Sei un impulsivo o un riflessivo nella quotidianità?
«Forse per una legge del contrappasso, più probabilmente per una questione caratteriale, nella vita sono una persona molto riflessiva. Mi prendo sempre il tempo necessario per riflettere e cerco di staccare la pancia dalla testa, perché decidere d’istinto non è mai garanzia di decidere per il meglio».

Coinvolto ingiustamente in Calciopoli e poi assolto in ogni sede per estraneità ai fatti imputati. Ma quanto pesa il pregiudizio, quanto pesano quegli anni di incertezza nei quali hai dovuto sopportare un ingiusto peso?
«Quella vicenda mi ha tolto il sorriso per moltissimi anni e l’ha fatto mancare a mia figlia che era appena nata, anche perché la risonanza mediatica fu tale che fummo condannati dai media e dai giornali prima del processo. Sono l’unico arbitro a non aver avuto condanne sportive né penali, però mi ha ferito ed è una ferita che mai si rimarginerà».

Hai avuto modo di arbitrare tanti campioni. Ci puoi indicare il giocatore più furbo e quello più forte che hai arbitrato?
«Il più furbo era Edgar Davids, mentre sul più bravo dico Roberto Baggio, ma devo sottolineare che Totti e Del Piero non sono secondi a nessuno perché sono stati anche loro grandi campioni».

Il Var in teoria avrebbe dovuto preservare dagli errori e stemperare le polemiche. Ora ci sono forse meno errori ma non meno polemiche, perché se un errore dell’occhio umano è perdonabile, uno che avviene a dispetto di e nonostante un supporto tecnologico lo è meno. Cosa ne pensi?
«Il Var è stato necessario per tutelare gli interessi economici, che oggi determinano la sopravvivenza di una società. Considerate che oggi è più importante arrivare nelle prime quattro che non vincere un campionato, perché la partecipazione alla Champions è vitale per un certo tipo di club. Quando Rocchi e Rizzoli parlavano dei risultati del Var in termini entusiastici è perché nel loro complesso il Var si sta rivelando utilissimo, poi però è chiaro che certi errori di valutazione siano dannosi per l’immagine. Personalmente escludo categoricamente la malafede, gli errori però talvolta sono stati palesi quanto a mancata uniformità di giudizio».

Voltiamo pagina e veniamo a una seconda fase della tua vita all’interno del pianeta calcio. La tua esperienza e la tua conoscenza delle regole vengono ritenute utili prima dal Frosinone e poi dalla Lazio...
«Non tutti lo sanno, ma io ho iniziato a svolgere questo ruolo già nell’Atletico Roma, allora allenato da Peppe Incocciati. In quel club c’era un giovanissimo Daniel Ciofani e lavoravo sulla formazione e la mentalità dei calciatori, così come ho fatto successivamente con Stellone, Longo e Baroni a Frosinone, prima di approdare alla Lazio».

Ci puoi raccontare un episodio divertente e significativo della tua esperienza biancoceleste?
«Beh, ricordo che nell’anno di panchina con Simone Inzaghi, quando lui voleva manifestare il proprio disappunto per decisioni che non condivideva, iniziava ad urlare contro di me. Una sorta di messaggio subliminale, e c’era una vis comica in tutto questo».

Siamo nell’era del calcio business e del calcio azienda. C’è ancora posto, a tuo parere, per le favole tipo il Cagliari di Riva e Scopigno, il Verona di Bagnoli, o, per uscire dai confini, il Leicester di Ranieri?
«Il lavoro che faccio mi ha portato ad avere rapporti con società del mondo del calcio o che comunque in qualche modo ruotano intorno ad esso. E’ impensabile che una piccola città di provincia possa arrivare in fondo, nemmeno il Como, che pure ha proprietari ai quali non manca la liquidità».

L’Italia ha perso posizioni nelle gerarchie del calcio europeo e mondiale. Cosa è accaduto e cosa manca per tornare ai vertici come dieci quindici anni fa?
«Mancano le infrastrutture e non mi riferisco solo agli stadi che ospitano le prime squadre, ma soprattutto alle strutture a disposizione dei settori giovanili. Mancano inoltre giocatori che abbiano il senso di appartenenza. Gli stranieri sono attratti dai lauti guadagni che ancora il campionato italiano garantisce, ma tolgono spazio ai giovani. Inoltre manca, ed è gravissimo, la cultura del programmare. Il presidente Stirpe è ancora una mosca bianca in tal senso. Quando la sua squadra è retrocessa le sue dichiarazioni del post gara sono state elogiate unanimemente ma poi nessuno ha imitato di fatto il suo esempio virtuoso».

Sei nato a Sora, ma la tua famiglia è arpinate. Hai vissuto a lungo a Frosinone ed ora abiti a Ferentino. E’ un... festival ciociaro. Quanto sei legato alle tue origini?
«Moltissimo. Ricordo che una volta, anzi un paio di volte, Angelo Pesciaroli nei suoi resoconti scrisse “il ciociaro”, commentando alcune mie direzioni di gara. Poiché era evidente che la sua volesse essere un’accezione negativa, gli feci presente che io ero certamente ciociaro, sottolineando quanto questo fosse per me motivo di orgoglio e non certo di vergogna. La Ciociaria è una terra meravigliosa. Il territorio potrebbe dare molto di più, ma consentimi di osservare che non sia stato adeguatamente tutelato dalla classe politica. L’ultima agevolazione è ancora ad oggi quella legata alla Cassa del Mezzogiorno, si può fare di più».

La chiacchierata volge al termine, almeno quella destinata a finire in pagina, e non riusciamo a strappare a Marco anticipazioni sul futuro calcistico che certamente non è finito con l’esperienza capitolina sponda Lazio. Una considerazione finale va però fatta sullo spessore del personaggio, perché sarebbe bello se nel calcio ci fosse qualche Marco Gabriele in più. Perché la preparazione di base, la capacità di argomentare, il giusto approccio nel consesso sociale non sono virtù particolarmente diffuse in questo mondo dorato e un po’ matto, pieno di milioni, bizze, artifici e amenità consimili. Il buonsenso, la capacità comunicativa, e quell’essere autorevole e non autoritario restano in tale contesto delle piacevolissime eccezioni.

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