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L'intervista

Domenico Pompili, una fede illuminata: «Ascoltare Dio più che parlarne»

«L’amore? Quello vero non è mai da condannare. Nella società di oggi ci sono tanti cambiamenti. Dobbiamo sforzarci di orientarli invece che subirli»

È vescovo di Verona dal 2 luglio del 2022. In precedenza aveva ricoperto analogo ministero a Rieti. Ancor prima era stato parroco di Vallepietra e della cattedrale San Paolo in Alatri, oltreché docente di teologia morale all’Istituto tecnico Leoniano di Anagni. Don Domenico Pompili è nato a Roma, ma è originario di Acuto. Dalla Ciociaria parte la sua storia di uomo di fede illuminato, comunicatore brillante, di grande cultura e di grande umanità. È stato direttore dell’ufficio nazionale per le comunicazioni sociali della Conferenza Episcopale Italiana, nonché sottosegretario della Cei. Figlio illustre della nostra terra, con grande disponibilità e con la brillantezza che lo contraddistingue ha risposto ad alcune domande sul suo rapporto con la fede e sulle problematiche di questa società sempre più frenetica.

Lei è un uomo di fede ed anche un esperto di comunicazione. Come si comunica la fede a un mondo distratto?
«La fede, come la comunicazione, nasce dall’ascolto. Questa è la ragione per cui oggi, pur se connessi notte e giorno siamo sempre più soli. Perché connessione non è automaticamente relazione. Manca l’ascolto dell’altro. E dunque non c’è comunicazione che vuole dire mettere in comune, anzi addirittura entrare in comunione. La stessa dinamica vale per la fede che si origina sempre a partire da gente disposta ad ascoltare Dio più che a parlarne».

Durante il suo vescovado reatino, la tragedia di Amatrice… Lei sollecitò le istituzioni politiche a dar pratica attuazione alle dichiarazioni di principio e in un’omelia sottolineò come non servissero eroi solitari, ma un impegno comune. Ci fu?
«Le cose non cambiano in virtù di “eroi solitari”, in nessun contesto. L’eroe coincide con la fuga dalla responsabilità: ciascuno si limita ad osservare e magari ad ammirare, ma senza agire. Soltanto una comunità coesa è realmente eroica, cioè, resistente. Nel caso di Amatrice nella prima fase questa resilienza è apparsa evidente. Poi col passare del tempo è diventata una scelta di alcuni e non più di tutti, perché altri nel frattempo erano altrove coi pensieri e coi progetti di vita».

Verona è la città di Giulietta e Romeo, che Dante pone nel secondo girone dell’Inferno. Ma l’amore, sia pur sotto forma di amore passione, può mai esser meritevole di condanne e castighi?
«Tutto sta ad intendersi su cosa sia amore, che è la parola più usata ed abusata. E non solo nelle canzonette. Se per amore si intende dare seguito alle emozioni del momento il rischio è che queste come vengono… vanno. Se dal livello delle emozioni si passa a quello delle convinzioni allora si costruisce qualcosa. L’amore non è mai da condannare. Semmai è l’amore che condanna e castiga chi lo prende sotto gamba».

Nella società di oggi manca più la comprensione, la solidarietà o il tempo per riflettere?
«Probabilmente l’ultima. A me non pare che la nostra generazione sia più insensibile di quella dei nostri nonni. Però certamente è dentro ad un cambio vorticoso che stordisce e disorienta. Per questo si avrebbe tanto bisogno di tempi di decantazione che aiutino ad entrare dentro il cambiamento, senza superficialità e senza paura. Per provare a comprenderlo e poi a orientarlo invece che a subirlo, semplicemente».

Se la fede è un dono di Dio, chi non crede ha rifiutato o non ha ricevuto il dono?
«La fede è un dono perché all’inizio non c’è l’uomo, ma Dio. Se dunque il primato è della grazia, la gratuità ne è a conseguenza.
Purtroppo questo è precisamente il nostro problema oggi. Abbiamo perso il senso della grazia e della gratuità. Per noi vale la legge che nessuno ti regala niente e al tempo stesso “tutto è dovuto”. La vita invece è un dono, cioè qualcosa che poteva non esserci, cioè è gratis e dunque se si vuol penetrare in essa occorre ritrovare questa libertà. E scoprire che fortunatamente c’è dell’Altro, oltre a noi».

In che rapporto si pongono fede e sofferenza? La sofferenza è una condizione necessaria?
«La sofferenza è realisticamente il riflesso della nostra condizione di essere limitati. Oggi si vive dentro un’atmosfera che esaspera invece la performance ad ogni livello. Abbiamo perso il senso del limite. E dunque la capacità di accettare la sofferenza che resta un limite insuperabile. La fede non elimina la sofferenza, ma aiuta ad attraversarla. Nessuna via di fuga rispetto alla sofferenza è data agli umani. La fede è realistica perché non censura il dolore, ma aiuta a sopportarlo».

Ritiene che taluni elementi del Cattolicesimo, non i dogmi ovviamente, possano essere lievemente rivisti e aperti a esigenze dei giorni nostri?
«Il Concilio Vaticano II è stato, ormai più di sessant’anni fa, il più lucido tentativo di “aggiornamento” del Vangelo che non va riscritto, ma va probabilmente meglio compreso. In effetti, c’è tanta gente che non conosce Gesù di Nazareth, anche se si tratta di una “buona notizia”. Spesso poi lo si capisce poco e lo si fraintende. Perché manca il tempo per ascoltarlo, ma soprattutto per sperimentarlo nel concreto. Il Vangelo di Gesù Cristo, infatti, non è un libro da sfogliare, ma una esperienza da vivere che genera un modo originale di stare al mondo».

Quale è stato a suo avviso l’elemento distintivo e caratterizzante del pontificato di Papa Francesco?
«L’elemento specifico di Francesco è stata la sua freschezza nel leggere ed annunciare il Vangelo, svestendolo di tutto quel che è superfluo ed accessorio. Ci ha riportato a san Francesco, cioè al Vangelo “sine glossa”, senza troppe interpretazioni a lato. Per questo ad alcuni è risultato urticante. Ma resto convinto che le sue aperture unite alla sua radicalità col tempo si riveleranno la strada da seguire con rinnovato entusiasmo. È quanto anche il suo successore, papa Leone, lascia intendere con il suo magistero, peraltro, espresso in uno stile diverso».

Nel terzo millennio ancora scenari di guerra su più fronti. Come recitava un brano degli anni 60, quando l’uomo potrà imparare a vivere senza ammazzare?
«Purtroppo siamo in un tempo di guerra e ancora non ce ne siamo accorti. Pensiamo che la guerra debba ancora scoppiare, ma in realtà è già scoppiata da un pezzo. Ed è una “guerra mondiale a pezzettini” che quando si saldassero sarebbe la fine per tutti. C’eravamo illusi di star tranquilli lontano dalla guerra, ma in realtà non c’è mai stato un tempo di pace. Quel che è peggio è rassegnarsi a questo clima, ritenendolo ormai uno stato di cose inevitabile».

Il Domenico bambino, prima della chiamata del Signore, cosa immaginava di fare da grande?
«Confesso che, per quanto strano, sin da bambino immaginavo proprio di fare il prete. Certo con la fantasia di un bambino che sognava così di fare qualcosa di importante. Dopo col crescere ovviamente sono state altre le motivazioni che mi hanno accompagnato, non ultima quella di poter essere utile a qualcuno».

Qualche ricordo della sua esperienza in Ciociaria?
«La Ciociaria è una terra che si apprezza ancora di più quando si va fuori. La si ritrova sempre verdeggiante e ricca di storia, con un fraseggio di paesi e di cittadine che ne fanno un mosaico di tradizioni e di esperienze sempre avvincenti. Ho vissuto per 25 anni ad Anagni e trovo che sia una perfetta incarnazione della storia minore del nostro Belpaese».

Lei è anche un valente calciatore ed ha disputato, da vescovo, una partita di beneficenza. Tifoso del Cagliari ed estimatore di Gigi Riva. Tutto vero?
«Ho giocato come tutti i ragazzi della mia età per strada e negli improvvisati campi di calcetto. In Seminario poi lo sport era coltivato con passione. Il tifo per Gigi Riva è comprensibile per il fatto che all’epoca della mia fanciullezza era come “Maradona”, con in più alcuni valori come la fedeltà e l’umiltà che ne hanno fatto un mito».

Un vescovo per l’immaginario collettivo non ha mai alcun dubbio. Ma il valore della fede passa anche per una verifica continua della propria interiorità e del rapporto con Dio. Lei ha mai avuto un momento di sconforto riguardo alla sua missione?
«Il credente – ha scritto qualcuno – è un ateo che ogni mattina ricomincia a credere. La fede non è mai un possesso acquisito una volta per tutte, ma è un cammino che non si interrompe e che dà la forza per andare avanti».

Scienza e religione possono essere coniugate senza che l’una rechi danni all’immagine dell’altra?
«All’ingresso dell’aula magna del Leoniano di Anagni c’è una scritta in latino che dice “Religioni et Scientia”, tra l’altro con la prima parola più piccola della seconda. In realtà, l’idea moderna che non si possa essere al tempo stesso credenti e razionali è una mistificazione. Non c’è contrapposizione tra le due dimensioni perché sono distinte e non sovrapponibili. Ma non per questo sono in contrasto. Anzi, la scienza senza la religione è zoppa e la religione senza la scienza è cieca». L’intervista si conclude. Don Domenico torna ai suoi compiti istituzionali e al suo ministero, con la pacatezza e il garbo che lo caratterizzano, valori importanti per i credenti e i dubbiosi, perché nella gentilezza, nella disponibilità e nel mettersi a disposizione degli altri c’è il senso più alto e gratificante dell’esistenza».

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