Spazio satira
L'anniversario
09.12.2022 - 22:00
Ci sono dischi che anche se ascoltati a distanza di anni dalla loro pubblicazione mostrano il peso di tutta la loro età. Ce ne sono altri che invece mantengono un'incredibile ed invidiabile "freschezza", e regalano sempre piacevoli sensazioni. Tra questi ultimi, a mio modesto avviso, va annoverato anche "Zerofobia", quarto album della lunghissima e fortunatissima carriera artistica di Renato Zero, che venne pubblicato nell'autunno del 1977, e quindi ben quarantacinque anni fa, e che costituisce il classico esempio di come un progetto musicale decisamente "pop", e tutto sommato piuttosto "commerciale", sia riuscito a diventare una pagina non marginale della storia della nostra musica leggera (tanto è vero che la rivista specializzata Rolling Stone lo pone al 35° posto della classifica dei migliori album italiani di sempre).
Comunque la si pensi a proposito di questa graduatoria è indiscutibile che quel 33 giri, a cominciare dall'iconica copertina che mostrava il truccatissimo cantautore romano vestito da "Pierrot", fu un coraggioso atto di sfida verso il "conformismo borghese" che in quegli anni cominciava inevitabilmente a sgretolarsi. Zero, con la sua irriverente teatralità, e palesando pubblicamente un'ambiguità sessuale che era tutto sommato piuttosto inedita per il panorama musicale italiano dell'epoca, attraverso il suo modo di presentarsi ruppe gli schemi tradizionali della "moralità comunicativa" alla quale eravamo abituati, e questo finì per avere dei riflessi concreti sulla cultura popolare del nostro Paese.
L'immagine "iconoclasta" che lui proponeva di sé ebbe infatti il positivo effetto di sdoganare una certa tipologia di personaggio, ma anche i testi di canzoni che trattavano esplicitamente di sessualità non tradizionale (basterebbe infatti pensare, su tutte, alla celebre "Triangolo", contenuta in "Zerolandia", che venne poi pubblicato nel 1978). Tale inatteso successo fu probabilmente dovuto al fatto che l'eccentrica e coloratissima immagine che l'artista capitolino proponeva di se stesso appariva genuina, piuttosto confidenziale, quasi "familiare", ed anche perché era lo specchio della sua anima libera. A dire il vero le coraggiose scelte che contraddistinguevano il suo modo di porsi al pubblico avevano inizialmente ostacolato il suo percorso artistico. Tuttavia, messe al servizio di un'intelligente (e furba…) creatività musicale, esse si rivelarono, alla lunga, vincenti.
L'oggettiva originalità del cantautore gli aprì infatti, agli inizi degli anni settanta, le porte della RCA, che all'epoca era la casa discografica che maggiormente amava scommettere sui nuovi talenti. Ed infatti, per comprendere meglio l'atmosfera che si respirava in quello specifico contesto produttivo, si potrebbe ad esempio ricordare quello che capitò a Ron il giorno del suo primo provino: «Io e mio papà eravamo nella sala di attesa di via Tiburtina. Prima entrò Lucio Dalla, che era già combinato in modo assurdo. Poi arrivò Renato, vestito da leopardo, che mi guardò e disse: Ciao, Nì. Il babbo voleva riportami a casa a Garlasco…». I primi contratti discografici consentirono a Zero la pubblicazione di tre album: "No mamma no" (del 1973), "Invenzioni" (del 1974), e "Trapezio" (del 1976).
Essi rappresentarono una parte qualitativamente importante della sua carriera, ma a dire il vero non gli regalarono il grande successo che auspicava. Sarà infatti solo "Zerofobia" a dare lo slancio definitivo alla sua consacrazione artistica. Lo stesso Renato ammise, in occasione di un'intervista, che fu proprio grazie a quel disco – che peraltro aveva il merito di non sfigurare affatto rispetto a quelli che altri cantautori italiani stavano pubblicando in quel periodo – che tutto cambiò: «Per anni c'era stato ostracismo verso di me; avevano preconcetti. Nel '77, però, sull'onda del successo di Zerofobia, registrammo uno dei primi concerti romani in piazza Mancini, e alla fine lo mandarono in onda, per quanto un po' alla chetichella, sulla RAI. Fu la prima, vera apertura nei miei confronti da parte della TV di Stato».
L'album, composto da dieci brani, è caratterizzato da un apprezzabile equilibrio sonoro, soprattutto a livello di arrangiamenti. E ciò nonostante le canzoni spazino tra generi piuttosto diversi, offrendo infatti all'ascolto piacevoli ballad, ritmiche tipiche della disco-music che andava tanto di moda in quegli anni, ed atmosfere funky. I brani più convincenti del disco sono più di uno; tra di essi segnalo "Mi vendo", "Vivo", "Morire qui" e "Il cielo" (questi ultimi due peraltro composti dal cantautore, a soli sedici anni, a Ventotene). Su quest'ultima canzone Zero ebbe occasione di dichiarare: «La scrissi in un minuto e mezzo… credo che in qualche modo venga da un "altrove"… perché si parla di spiritualità… solo il cielo ci consente di renderci conto di quanto siamo piccoli. Il mio è un Cielo con la maiuscola, ovviamente… nasce anche dalla mia esperienza personale; quando sono venuto al mondo, a causa di una forte anemia, mi sottoposero a trattamenti medici dei quali porto ancora le cicatrici.
E se mia madre non avesse avuto la pazienza e la volontà di partorirmi, sapendo che era probabile che morissi? Con il Cielo volevo che si focalizzasse l'attenzione sull'esserino che non vede l'ora di mettere la testa fuori, di essere amato. Bisogna essere oculati in certe decisioni. Quando si è in possesso di un dono come la vita non bisogna sentirsi Dio. Fra noi e il Cielo con la maiuscola c'è distanza. E tutto ciò vale anche se uno non crede… quel brano è una sorta di bilancio, una riflessione senza tempo: solo alzando gli occhi al cielo abbiamo la sensazione che, prima o poi, i furbi e i violenti dovranno confrontarsi con una giustizia, e solo la fede ti fa galleggiare sull'oceano».
A mio parere, tuttavia, il brano più bello dell'album è "Tragico samba", che, attraverso un arrangiamento davvero centrato, tratta con un'efficacia davvero non comune argomenti che erano assai spinosi per l'epoca (l'aborto, la violenza sessuale, l'incesto, la depressione). In quel pezzo è peraltro contenuta una delle frasi più belle dell'intera poetica del cantautore romano, tra l'altro impreziosita da una raffinata scelta metrica, e da un'impeccabile rima: «Sei, insopportabile, sei! Ma vivi, c'è chi sta peggio, che vuoi! Non ne posso più, e la ragione dei miei mali sei tu, ma se non fossi il problema che sei, probabilmente io non ti amerei!».
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