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Il personaggio

Anton Giulio Bragaglia, un futurista in scena

iù che un'idea, una vera e propria rivoluzione. L'utilizzo di luci, i rumori e le opere di giovani autor

teatro

La prima metà del Novecento fu contraddistinta da tanti "ismi" e tanti movimenti artistici variamente interessanti. Surrealismo, dadaismo, futurismo e altre declinazioni teorico-pratiche si rincorsero durante un lasso di tempo di almeno un trentennio, generando produzioni artistiche e letterarie, le quali, viste con l'occhio della storia, non possono che risultare ancora oggi di grande fascino.

Del pari, estremamente importante fu l'attività dei tre fratelli Bragaglia, Anton Giulio, Alberto e Carlo Ludovico, originari di Frosinone. Il primo, regista, critico teatrale, futurista e inventore della fotodinamica, teorico della messa in scena e avanguardista, fondò il "Teatro delle arti", rivelatosi, per sette stagioni (1937-1943), di primaria importanza per la comprensione della storia dello spettacolo nell'Italia degli anni del regime fascista.
Questa particolare istituzione, che realizzava per la prima volta nel nostro Paese il sogno di un teatro di Stato, per merito esclusivo del suo fondatore, divenne un organismo strutturalmente libero da fini commerciali con un programma culturale vario e aggiornato per lo svecchiamento del repertorio nazionale tramite la continua proposta di testi di giovani autori, l'adattamento alle scene di classici italiani e stranieri e la traduzione dei maggiori drammi contemporanei prodotti all'estero.

Poi, nel 1918 insieme al fratello Carlo Ludovico fondò prima la "Casa d'arte Bragaglia", punto d'incontro di pittori, scultori e cineasti; e, ancora, nel 1922 il "Teatro degli indipendenti", dedicato all'avanguardia e alla sperimentazione.
Perfettamente calato nella realtà culturale del suo tempo, l'attività teatrale di Anton Giulio si fondò innanzitutto sugli stimoli e sulle suggestioni provenienti dal mondo futurista. Ma non è da trascurare anche la conoscenza (non sempre diretta, anzi in molti casi superficiale e soltanto libresca), dell'universo molteplice delle avanguardie europee, acquisita in parte grazie ai numerosi viaggi compiuti all'estero. Cosa che lo portò, abbastanza inevitabilmente, ad una proficua collaborazione con Antonio Valente, al quale ho dedicato la puntata del 20 settembre.

L'attività di Bragaglia, tuttavia, non ebbe quel rigore ideologico dei registi fondatori del teatro europeo del Novecento, tant'è che, a differenza di molti di loro (si pensi solo ad uno Stanislavskij e al suo sistema di recitazione diffuso in ogni dove), non ebbe mai velleità "pedagogiche". Piuttosto, la sua idea era di fare del "Teatro degli indipendenti" un crocevia di esperienze, unendo la messinscena di opere nuove e inedite di giovani e promettenti autori teatrali, con i contributi tecnici e artistici di scenografi, architetti e pittori già affermati, come un Balla, un Depero o un Prampolini.
Infatti, nel corso degli anni Venti, Anton Giulio cercò di riformare lo statuto dell'evento teatrale, prefigurando una sorta di "teatro teatrale". Per perseguire il suo progetto, Bragaglia si concentrò su due livelli distinti ma complementari: la scenografia (e i dispositivi scenotecnici) e il corpo umano (non di rado impiegato come corpo danzante).

Ecco allora che la scena veniva esaltata attraverso i movimenti e la creazione di un particolarissimo "clima scenico" ottenuto con l'impiego di luci, colori, rumori, voci, atmosfere-ambiente. Così, per la prima volta nella storia del teatro italiano, un direttore di scena, diventava "regista" nel senso pieno del termine (benché Bragaglia preferiva il più anticheggiante "corago"), in quanto coordinatore dell'opera del poeta, dell'attore, del luminotecnico, dello scenografo, del macchinista.
Sul fronte della recitazione, egli preferì dare spesso importanza all'improvvisazione, esaltandola come una forma di genialità pur nella semplicità tecnica dell'espressione.

Il suo capolavoro resta probabilmente la messinscena di "Per fare l'alba" di Pier Maria Rosso di San Secondo, la cui prima si ebbe al Teatro Argentina di Roma nel febbraio del 1919. La vera, grande novità di questa rappresentazione, fu il sapiente impiego delle scenografie preparate da Antonio Valente, che consentì al corago Bragaglia di ottenere gli effetti desiderati di mutazione delle atmosfere del dramma, passando da tonalità più fredde ad altre più calde.

Ma altrettanto notevoli furono le rappresentazioni, sempre con scene di Valente, del "Sogno" di Sciabrin (1920) e de "L'Arcobaleno" di Schumann (1921), nel quale gli effetti scenici andavano ben oltre la tecnica pura dell'illusionismo e si segnalano per una ricerca sulla scomposizione dei colori, tanto che i corpi danzanti degli interpreti sembravano passare in una nuvola dalle varie gradazioni dal viola al rosso, in un mirabile gioco cromatico.
Per chi volesse saperne di più, una lettura molto interessante è il libro di F. Vigna, "Il corago sublime. Anton Giulio Bragaglia e il Teatro delle arti", uscito nel 2008.

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