Su il sipario
17.12.2025 - 15:00
Nella puntata del 13 novembre dell’anno scorso, premettendo brevi cenni alla storia di Alvito – paese della Val di Comino, al quale i documenti più antichi si riferiscono come una Civitas Sancti Urbani – raccontai di un dramma sacro dedicato alle vicende di S. Valerio soldato martire, santo patrono cittadino.
Il testo di quel dramma, che era stato scritto dal parroco don Vincenzo Pizzuti, è andato purtroppo smarrito, ma sono sicuramente attestate alcune rappresentazioni nel signorile teatro di corte del palazzo Gallio. Una prima replica ebbe luogo all’inizio degli anni Venti; un’altra messinscena venne realizzata all’inizio degli anni Quaranta. In entrambi i casi il successo di pubblico fu straordinario, tanto che si costituì una vera e propria associazione filodrammatica.
La memoria del dramma sulla figura del santo martire era talmente viva che ancora nel 1949, gli studenti del locale ginnasio – che aveva sede presso i locali dell’ex convento dei frati Cappuccini (luogo, peraltro, di recite nel corso degli anni Cinquanta da parte dei membri della locale Congrega di San Rocco) – manifestarono al loro docente di italiano, il prof. Valerio Brusca, l’intenzione di allestirne una rappresentazione teatrale, per la conclusione dell’anno scolastico.
Con buona certezza i ragazzi cominciarono, sotto la guida del loro professore, le prove del copione. Tuttavia, dovettero insorgere dei contrasti tra Brusca e gli appartenenti alla Filodrammatica (che probabilmente si consideravano gli unici titolati alla rappresentazione del copione), che determinarono l’abbandono del progetto di messinscena da parte dei ragazzi del ginnasio.
Ma la storia delle rappresentazioni di drammi sacri ad Alvito riserva ancora un paio di sorprese risalenti agli anni dell’immediato secondo dopoguerra. Sorprese che si devono all’alacre attività teatrale portata avanti dalla Filodrammatica alvitana. Infatti, nel periodo pasquale dell’anno 1950, il gruppo si impegnò nella preparazione e rappresentazione di un dramma intitolato “Passione di Cristo”.
Purtroppo, a parte il nome del protagonista principale – Loreto Maggio – non ci sono giunte ulteriori notizie, né in relazione alla messinscena, né in ordine al copione che venne approntato o di chi ne fosse l’autore. Ovviamente, trattandosi di un dramma relativo agli accadimenti della fase finale della vita di Gesù è verosimile ritenere che l’anonimo autore del testo si sia attenuto quanto più fedelmente è possibile alla narrazione che di quegli eventi fanno i quattro evangelisti.
Tre anni più tardi, sempre nel periodo pasquale, la Filodrammatica portò in scena un’altra storia sacra: Santa Rita da Cascia. Si consideri che la già grande devozione per Santa Rita – che era stata proclamata beata nel 1627 – aveva conosciuto un’ulteriore diffusione popolare dal momento che, all’inizio del Novecento, papa Leone XIII l’aveva innalzata agli onori dell’altare, canonizzandola definitivamente. Forse anche per questa ragione, il gruppo alvitano decise di preparare una rappresentazione che raccontasse la storia della “santa dei casi impossibili”.
Il lavoro drammaturgico, questa volta, fu ben più impegnativo, dal momento che l’autore del testo, Mario Rossi, preparò un’azione storica in ben sei tempi e un quadro. Di cosa raccontasse questo dramma possiamo solo fare delle ipotesi, dal momento che anche il testo su Santa Rita – al pari di quello su San Valerio – è andato perduto. Non è difficile, però, credere che trattandosi di un’“azione storica”, l’autore si sia attenuto a quella che è la tradizione agiografica sulla Santa di Cascia.
Probabilmente Rossi dovette attingere a piene mani al racconto della vita e delle esperienze religiose della Santa scritto e pubblicato a Siena nel 1610 dal padre agostiniano Agostino Cavallucci da Foligno. Perciò, il dramma avrebbe seguito la vita di Margherita Lotti, che era nata nel 1371 (o forse dieci anni più tardi), da Antonio e Amata Ferri, che nel libero comune di Cascia svolgevano il particolare incarico di “pacificatori” – una specie di “giudici di pace ante litteram” – cioè di mediatori tra le famiglie in conflitto tra loro.
La giovane Rita sposò Paolo di Ferdinando, un ghibellino disilluso, aiutandolo con la sua mitezza a vivere una condotta più autenticamente cristiana. Dal matrimonio nacquero due figli, Giangiacomo Antonio e Paolo Maria. Purtroppo l’unione si concluse tragicamente: nel 1406 Paolo venne assassinato, morendo sotto gli occhi della moglie, che ne nascose la camicia insanguinata per evitare il sorgere di propositi di vendetta nei figli. I quali anch’essi moriranno di morte violenta. Allora Rita, trentaseienne, decise di entrare nel Monastero di Santa Maria Maddalena, abbracciando una vita di contemplazione e preghiera, tanto da intessere un dialogo con Dio e cominciare a compiere miracoli. Morì nel 1457.
A giudicare dai nomi dei personaggi che si leggono ancora oggi nella locandina dello spettacolo, stampata sul retro di un santino devozionale, Rossi dovette attenersi scrupolosamente ai fatti storici della vita di Santa Rita.
Per chi volesse saperne di più, di questo testo vengono fornite molte notizie nel libro di Giovanni De Vita, “Sacre rappresentazioni e spettacoli popolari nella provincia di Frosinone”, Roccasecca (2011).
Edizione digitale
I più recenti
Ultime dalla sezione