Spazio satira
Il caso
02.07.2025 - 14:00
Nella puntata del 25 ottobre di due anni fa avevo raccontato le esperienze drammaturgiche del calabrese Antonio Jerocades, che nella seconda metà del Settecento aveva ricevuto una cattedra nel Collegio Tuziano di Sora per insegnare filosofia e belle lettere. Per il carnevale del 1769 aveva scritto un dramma intitolato “Olinto e Sofronia” e lo aveva fatto rappresentare dagli studenti. Nel gennaio del 1770, compose un altro dramma, ”Il ritorno di Ulisse”, affinché venisse messo in scena dai convittori durante il carnevale di quell’anno. Com’era d’uso al tempo, il sacerdote calabrese preparò anche due intermezzi comici. Uno si intitolava “D. Inquintilla”, del quale sappiamo soltanto che esprimeva «i caratteri di picciolo Paese». L’altro invece era “Pulcinella da Quacquero”, e fu causa di una lunga serie di beghe giudiziarie per Jerocades. Scritti i tre testi, l’abate, come era necessario, chiese ed ottenne dall’autorità locale i permessi necessari per la rappresentazione.
Il copione girò un po’ per la città – impossibile dire se per volontà dell’autore o di altri – e fu oggetto di giudizi contrastanti: alcuni lo lodavano come buono, altri lo trovavano troppo serioso. Sappiamo anche che probabilmente la farsa di “Pulcinella da Quacquero” aveva avuto una prima redazione, mai apparsa in pubblico, intitolata “Pulcinella fatto principe”, con palese sarcastico riferimento a Ferdinando IV che nel suo Regno aveva – sosteneva il quacquero protagonista – meno autorità di un semplice prete. La prova generale dello spettacolo si tenne il 14 febbraio; il direttore del collegio aveva sforbiciato in più punti il dialogo dell’intermezzo per renderlo meno polemico. Dopo la prova generale si sparse la voce a Sora sul contenuto della pulcinellata. Un certo Nicola Lisi rubò l’originale dallo scrittorio di Jerocades e lo consegnò al vescovo. Questi, in considerazione che “Pulcinella da Quacquero” conteneva «sentimenti che dalle fondamenta distruggono le più sacrosante massime della religione» e «proposizioni erronee, ereticali ed offensive delle pie orecchie dei fedeli», ne proibì la recita, sotto pena di incorrere nella sospensione a divinis per il rettore del seminario, Gennaro Partitario.
Alle ingiunzioni del prelato, il rettore rispondeva che «non aveva che fare col vescovo», mentre Jerocades affermava «che non conosceva Vescovo, ma soltanto il Re, e il Commissario di Campagna sopraintendente». L’autore era fermo nell’intendimento di dar luogo alla rappresentazione, al che il rettore acconsentì, a patto che il testo fosse mitigato e il titolo cambiato in “Il servo napolitano”. Fu quindi rappresentato l’intero spettacolo, durante il quale, secondo alcuni testimoni oculari, non vennero dette sulla scena le frasi “peccaminose” inserite nell’originale. Il 18 febbraio, irritato per la trasgressione del divieto, il vescovo fece reclamo al regio governo, dal quale il Collegio Tuziano dipendeva, asserendo, sulla scorta di una relazione del governatore Felice Orlando, che nella farsa «si insultava tutto il pubblico di Sora». E inoltre, avviò un processo, nonostante mancasse il consenso del Re.
Nell’aprile del 1770, il Cavalier Francesco Vargas Macciucca, incaricato dal Re di esaminare la cosa e dire la sua opinione in proposito, scrisse una relazione nella quale affermava di aver letto l’intermezzo, riconoscendo che le parole ingiuriose per la religione cattolica venivano dette in modo che «tutta vi si vede snervata la verità Cattolica a fronte delle assertive, e derisioni del Quakero», concludendo che nei confronti dei “responsabili” non si eseguisse «né citazione né carcerazione né si vada avanti con la causa» (e nemmeno che si allontanasse dall’insegnamento il Jerocades).
A maggio, invece, riprese il processo voluto dal vescovo: furono sentiti vari testimoni (per lo più non veritieri) che riferivano di affermazioni «dannate ed ereticali» e che Jerocades non praticava il sacramento della penitenza. Prima che l’indagine si chiudesse, l’abate si rifugiò a Napoli, da dove nel 1771, dopo una sosta in Calabria e a Messina, approdò a Marsiglia. Qui abbracciò convintamente il credo massonico. Tuttavia, nel 1774, venne consigliato di accettare il rientro a Sora per un periodo di “correzione” che, sotto la sorveglianza speciale del vescovo, si protrasse per un paio di anni, trascorsi i quali tornò a Napoli.
Dal complesso di quanto è detto negli atti processuali, sembrerebbe che questa bufera, scatenatasi contro Jerocades per una farsa tutto sommato innocua e teatralmente molto ordinaria, fosse l’effetto delle controversie che agitavano la congregazione dei Gesuiti.
Questi, cacciati dal Regno e quindi anche dal Collegio Tuziano che era già stato nelle loro mani, avrebbero avuto interesse a mostrare che, dopo la loro dipartita, vi si era introdotta l’eresia e lo scandalo. Per chi volesse saperne di più: “Il ritorno di Ulisse” venne stampato a Napoli nel 1768 (con il nome di “Abate A.J.), e senza naturalmente i due intermezzi. Una copia di trova nella Biblioteca del Conservatorio di musica napoletano. “Il Pulcinella” è conservato manoscritto all’Archivio di Napoli. Invece tutte le carte “processuali” e i commenti dei cronisti sono conservati in una miscellanea manoscritta della Biblioteca Nazionale di Napoli (coll. XIV B. 5).
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