Frosinone
26.03.2025 - 20:00
La puntata del 28 giugno 2023 era incentrata sulla figura dell’umanista Giovanni Sulpizio Verulano. Quella volta raccontai più in generale che, grazie al lavoro filologico degli umanisti, erano riemerse opere fondamentali della classicità romana. La rifondazione del teatro agli albori del Rinascimento poggia sostanzialmente su tre pilastri: lo studio della “Poetica” di Aristotele, la lettura dell’opera enciclopedica “Onomasticon” di Polluce, e lo studio del “De Architectura” di Vitruvio.
Sulpizio non fu solo eccellente editore di testi antichi, ma, al pari dell’amico Pomponio, fu anche “regista” ante litteram di una tragedia di Seneca, che andò in scena per ben tre volte a Roma nel 1486: l’Hippolytus (titolo della tragedia che oggi è nota come Phedra), un’opera intensa e violenta.
Dalla lettera dedicatoria al Riario, apprendiamo che l’Hippolytus fu allestita una prima volta all’aperto, forse davanti la chiesa di S. Lorenzo di Damaso. Un secondo allestimento avvenne a Castel S. Angelo alla presenza di Innocenzo VIII. Infine, una terza replica, forse quella più riuscita (o per lo meno più rispondente alle idee estetiche del “regista”), fu data nel cortile del palazzo Riario.
Considerato che le tragedie di Seneca erano tramandate dal codice “Etruscus”, la versione di Hippolytus che i giovani attori di Sulpizio impararono a memoria era proprio quella contenuta in quel codice. E, vista la cura filologica di Sulpizio e il rispetto quasi maniacale che lui e gli altri accademici avevano della latinità, il testo di Seneca fu rispettato nella sua interezza.
In occasione della seconda replica il Verolano scrisse un “Argomentum” e un “Prologus”, verosimilmente da lui stesso declamati al pubblico, prima che la rappresentazione vera e propria avesse inizio. In questi testi sottolineava l’intento educativo e morale e chiedeva al pubblico un ascolto silenzioso.
In una lettera che il 13 aprile 1486 Alessandro Cortese (fratello del più noto Paolo) scriveva da Roma al suo amico Francesco Baroni, cancelliere della Repubblica fiorentina, veniva espresso il rammarico che il Baroni, essendo lontano, non avrebbe potuto assistere, in quello stesso giorno, alla rappresentazione dell’Ippolito, «sebbene uno spettacolo di sangue, dato in pubblico, dinanzi alla casa del cardinale Camerlengo, poteva apparire come un triste presagio di maggiori disavventure per la città, cui toccava spesso, ormai, di vedere i principi della chiesa scambiare la mitria coll’elmo». È chiaro che quella segnalata dal Cortese sia la terza replica della rappresentazione.
Tra gli attori diretti da Sulpizio figurava un giovanissimo Tommaso Inghirami, che interpretava il ruolo di Fedra. Figura di primissimo piano nel movimento culturale romano e nella restituzione del teatro classico, Tommaso Inghirami studiò alla scuola di Pomponio Leto, divenendo presto celebre come poeta latino e oratore, giungendo a diventarne il successore alla cattedra di retorica allo Studium Urbis (cioè quella che oggi è l’Università “La Sapienza”). La sua interpretazione del ruolo femminile nella rappresentazione sulpiziana fu talmente efficace e ineccepibile che egli venne soprannominato “Fedra” praticamente per il resto della sua vita.
Come recitavano questi ragazzi sulla scena? All’epoca il problema della tecnica recitativa era sostanzialmente ignorato. Considerata la provenienza di regista e interpreti dal mondo dell’oratoria e della retorica accademica, è presumibile che “Fedra” Inghirami e gli altri ragazzi che recitarono nella triplice rappresentazione sulpiziana, adottarono una forma di declamazione secondo il modello dell’oratoria classica, materia che peraltro doveva essere il loro pane quotidiano allo “Studium”.
È presumibile che, nell’Ippolito, ci siano stati brani non solo recitati ma anche cantati. La precisazione contenuta nella lettera al Riario, secondo la quale Sulpizio aveva insegnato ai suoi ragazzi ad “agere et cantare”, ha fatto erroneamente pensare a qualche studioso che Sulpizio fosse stato il primo autore di opere liriche!
Infine, la scenografia delle tre repliche (davanti al palazzo del Riario vicino a Campo dei Fiori; più solennemente a Castel S. Angelo; e in casa del cardinale «come nell’area di un circo» – con gli spettatori a circolo su gradinate?) doveva avere ricca decorazione (probabilmente con porte e tende) e sistemata su un palco alto cinque piedi, come voleva Vitruvio.
Chi volesse saperne di più, può leggere i manoscritti dell’Argomentum e del Prologus presso la Biblioteca Vallicelliana di Roma nel codice “F 20”.
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