L'analisi
04.08.2025 - 15:00
Con l’ordine esecutivo firmato dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump, il giorno del giudizio è slittato di sette giorni. E anche sulla Ciociaria resta appesa la spada di Damocle delle ripercussioni delle nuove tariffe sulle esportazioni.
L’entrata in vigore dei nuovi dazi per decine di Paesi, che era stata annunciata per il primo agosto, è ora prevista per il 7 agosto.
Restano ancora molte le incognite e l’ordine esecutivo non specifica i settori coinvolti, ma per l’Unione europea regge l’accordo che fissa al 15% la tariffa suoi beni importati dagli Stati Uniti, come stabilito durante l’incontro in Scozia tra Trump e la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen. Scongiurato l’aumento, dunque, ma i dazi spaventano eccome. Tanto più per quei territori, come la Ciociaria, in cui l’export fa la parte del leone.
Secondo i dati elaborati dall’Ufficio Studi della Cgia di Mestre, nel 2024 la provincia di Frosinone ha esportato merci verso gli Stati Uniti per un valore pari a 598,9 milioni di euro, in crescita del 4,8% rispetto ai 571,4 milioni di euro del 2023.
Numeri, questi, che pongono il Frusinate al trentunesimo posto nella classifica nazionale per valore dell’export verso gli Usa, con una quota dello 0,9% sul totale nazionale. Crescita registrata, dal 2023 al 2024, anche a livello regionale, con un aumento del 35,7% delle esportazioni verso gli Stati Uniti e una quota sul totale nazionale del 5.5%, con il Lazio al sesto posto della classifica delle regioni stilata dalla Cgia. È di 3 miliadi e 568 milioni il valore dell’export laziale negli Usa del 2024, con una crescita di 939 milioni rispetto al 2023.
Medicinali e preparati farmaceutici, autoveicoli e aeromobili i principali settori coinvolti.
E se c’è timore per le ripercussioni che l’applicazione dei dazi potrà avere sul farmaceutico, un settore che, soprattutto in termini di export, in provincia di Frosinone rappresenta un colosso, per il gigante dai piedi d’argilla che è l’automotive, con la crisi Stellantis che continua a preoccupare, il futuro sembra sempre più incerto.
Lo scenario
In attesa che venga ufficializzata la lista dei prodotti esentati dai dazi che scatteranno il prossimo 7 agosto, l’Ufficio studi della Cgia stima che l’applicazione dell’aliquota al 15% dovrebbe causare all’Italia un danno, nel breve termine, tra i 14 e i 15 miliardi di euro all’anno. Per rendere l’idea dell’impatto economico l’associazione propone un parallelismo: «Un importo – si legge nello studio – che, in linea di massima, corrisponde al costo che nei prossimi anni sosterrà il nostro bilancio statale per realizzare la più grande opera pubblica di sempre: vale a dire il ponte sullo Stretto di Messina». Un danno, quello causato dalle politiche protezionistiche Usa, che, secondo la stima della Cgia, racchiude sia gli effetti diretti, identificabili nelle mancate esportazioni, sia quelli indiretti, come la riduzione margine di profitto delle imprese che continueranno a vendere nel mercato statunitense, il costo delle misure di sostegno al reddito degli addetti italiani che perderanno il posto di lavoro, il trasferimento delle imprese o di una parte delle produzioni verso gli Usa o quella di nuovi sbocchi commerciali per compensare le perdite subite. Va tenuta, inoltre, in considerazione la svalutazione del dollaro rispetto all’euro, che, insieme ai dazi, ridurrebbe la competitività degli esportatori europei rispetto sia ai produttori locali e ai Paesi colpiti in misura inferiore dalle tariffe di esportazione.
Il ruolo del Made in Italy
Secondo la Cgia di Mestre i dazi al 15% fanno emergere, tra le altre cose, alcuni interrogativi: Consumatori e imprese statunitensi sostituiranno i beni finali e intermedi italiani con quelli autoctoni o di altri Paesi, oppure continueranno ad acquistare prodotti Made in Italy?» E ancora: «A seguito delle nuove barriere doganali, le imprese esportatrici italiane riusciranno a non aumentare i prezzi di vendita negli Usa?»
Per affrontare una riflessione di questo tipo l’associazione degli artigiani si sofferma sulla tipologia di prodotti esportati. «La Banca d’Italia – si legge nello studio – ricorda che il 43% delle nostre esportazioni verso gli Stati Uniti è costituito da prodotti di qualità alta e un altro 49% da prodotti di qualità media: pertanto il 92% delle nostre merci acquistate oltre Oceano è di alta gamma». Da ciò si evince che il cliente finale di questo tipo di prodotti è verosimilmente a reddito elevato e potrebbe, pertanto, essere influenzato soltanto marginalmente dall’aumento di prezzo o non esserlo affatto. In merito al secondo interrogativo, invece, la Cgia segnala che il potenziale calo della domanda statunitense legato all’incremento dei prezzi dei prodotti finali potrebbe essere assorbito dalle imprese eurpee attraverso una contrazione dei propri margini di profitto.
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