Cerca

Arte e colore

Il mio mondo in bianco e nero

La Sicilia, gli studi all’istituto d’arte di Monza, Arpino. E quell’amore incondizionato per la fotografia. Piero Albery si racconta e ci parla delle sue passioni: «Da bambino ero sempre io che scattavo le foto di famiglia»

Piero Albery

Piero Albery, trapanese di origine ma ormai ciociaro di adozione

Un fotografo di una volta sì, ma che ha saputo adeguarsi alle nuove tecnologie del mondo moderno: Piero Albery risponde alle domande di Ciociaria Oggi con un po’ di nostalgia, anche se mitigata dalla sua nuova avventura artistica…

Di dove è originario?
«Sono nato a Trapani nel 1955, quindi di origini siciliane, ma vivo da tanti anni ad Arpino».

Quando ha cominciato a interessarsi alla fotografia?
«Tutto è iniziato nel 1971, al primo anno dell’Istituto d’arte di Monza, che a quel tempo era una scuola all’avanguardia e la prima in Italia per l’indirizzo artistico. Però l’interesse per la fotografia e il rapporto con la macchina fotografica covava da sempre dentro di me. Fin da bambino ero sempre io che scattavo le foto di famiglia. Una delle immagini che hanno segnato la mia gioventù fu lo scatto realizzato a Gibellina subito dopo il terremoto del Belice del 1968, dove abitavano i miei nonni materni e tutti i parenti di mia madre».

Qual è stata la sua formazione?
«La mia formazione ha avuto una svolta nel mondo artistico quando i miei genitori hanno capito che le scuole tecniche non facevano per me. L’istituto d’arte di Monza e in seguito quello di Sora hanno formato la mia vena artistica. Dopo la fine della scuola ho avuto la possibilità di lavorare come grafico nel mio territorio e in seguito in Sicilia e in Puglia. Dopo avere risparmiato molti soldi per l’epoca ho potuto acquistare la mia prima macchina fotografica, tutto l’occorrente per la stampa in bianco e nero e iniziare a scattare fotografie».

Che cosa rappresenta la fotografia per lei?
«La fotografia per me è stato il modo di fare emergere un fuoco che covava dentro da sempre. L’esperienza mi ha insegnato anche che fotografi si nasce. Si può affinare la tecnica, acquisire conoscenze ma ci deve essere il fuoco di sapersi guardare intorno».

Come si è evoluta negli anni, soprattutto con l’avvento del digitale?
«Ho scattato e sviluppato in bianco e nero da solo fino agli inizi degli anni novanta. Un fotografo “analogico” come me guardava il nascere della fotografia digitale con un certo timore. Non avrei mai immaginato che avrebbe avuto il sopravvento. Con coraggio, ho comprato la prima costosissima macchina digitale e ho pensato che se il mondo doveva cambiare era meglio farsi trovare preparato».

Quali sono i suoi soggetti preferiti?
«I miei soggetti preferiti sono sempre stati il piccolo mondo che mi ruotava intorno, le persone in particolare e quelle immagini di vita quotidiana che apparentemente non avevano una evidente valenza di effetto artistico. Io definisco la mia fotografia molto normale, quasi ordinaria. Ho scoperto solo dopo parecchi anni e in età adulta che quel lavoro di fotografia ordinaria si era trasformata in straordinaria perché ho fermato su pellicola e in seguito su file molte cose del mio tempo che sono diventate ormai un documento storico-artistico. Tutti riconoscono nei miei scatti una particolare bravura a cogliere gli attimi. Inoltre Facebook mi ha dato la possibilità di pubblicare il mio immenso archivio e metterlo a disposizione di tutti e in modo particolare dei soggetti fotografati, a volte ignari protagonisti dei miei scatti “rubati”».

Colore o bianco e nero, e perché?
«Bianco e nero perché quando ho iniziato era il protagonista assoluto e perché era più facile da gestire in casa a livello amatoriale».

Come si riesce a dare “un’anima” a una fotografia?
«Questa è una domanda alla quale è difficile rispondere. L’occhio del fotografo dà l’anima all’immagine. Parte dal profondo dell’uomo che sta dietro alla macchina fotografica. Come un cacciatore devi essere pronto a sparare. Devi annusare la preda, la devi seguire e non puoi sprecare il colpo. A volte ti aiuta la fortuna ma il più delle volte devi essere lì con il colpo in canna».

Perché ha cominciato a dipingere?
«Dopo cinquanta anni di fotografia ho deciso di fermarmi. Ho capito che il mio tempo fotografico era terminato. Troppe cose sono cambiate in pochi anni. Non ci sono più i miei soggetti preferiti, inoltre il digitale è una fotografia ferocemente veloce. Scatti continui, visione immediata delle immagini, non c’è più la magia dell’attesa, del rito dello sviluppo, della stampa, della camera oscura dove si trascorrevano ore e ore con l’inconfondibile odore degli acidi per lo sviluppo. Inoltre la pittura – mia passione giovanile interrotta senza un perché – è un esercizio di calma e pazienza che fa recuperare il senso della lentezza del tempo».

Perché si è fermato ad Arpino?
«Dopo molto girovagare in varie parti d’Italia, sono tornato ad Arpino perché è la città dei miei nonni paterni e di mio padre. Dopo la separazione dei miei genitori sono stati i miei nonni a crescermi, sono stato sempre molto legato a loro e al luogo. Ho acquistato una casa e messo su famiglia». L’immenso patrimonio artistico e umano di Albery è ora visitabile sul suo profilo Facebook, “L’archivio di Piero racconta”. Rigorosamente in bianco e nero...

Edizione digitale

Sfoglia il giornale

Acquista l'edizione

Ultime dalla sezione