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L'intervista

Tutte le delizie dello chef Felice Santodonato

Il ceccanese ha esportato i sapori della nostra terra in Cina e anche negli Stati Uniti. «Tra noi e i cinesi esistono profonde differenze nella mentalità in merito alla gestione di un ristorante»

Felice Santodonato

Lo chef Felice Santodonato ha esportato le delizie della sua cucina fino al lontano Oriente FOTO FEDERICO PROIETTI

Uno chef internazionale, Felice Santodonato è il nostro gradito interlocutore di giornata. Ciociaro, nato a Ceccano, ha esportato la sua specifica sapienza in terre lontane. Con lui parliamo di questo mestiere fascinoso e intrigante, che lo ha portato in ogni angolo del mondo. Culture, tradizioni e abitudini diverse non lo hanno spaventato perché la cucina, in fondo, è un linguaggio universale.

Cresciuto professionalmente a Fiuggi, presso l’alberghiero, hai conquistato la Cina. Ci spieghi come?

«Adesso sembra normale parlare di esperienze di questo tipo. Ma tanti anni fa io non avrei mai immaginato di prendere l’areo, conoscere il mio socio, con il quale ho avviato un’attività di import-export nell’ambito della ristorazione, e di lavorare all’estero come fosse la normalità».

La ristorazione apre quindi porte inattese e intriganti?
«Già, è proprio così. Mi rivolgo pertanto anche ai ragazzi che ora frequentano scuole di formazione. Non abbandonate mai il vostro sogno. Tra i banchi di scuola può nascere un’idea vincente».

Arrivato in Cina quanti ristoranti apri?
«Inizialmente apriamo un primo ristorante italiano su una torre alta 230 metri a Li Ni, nella regione dello Sho Dong, con un cinese che parla benissimo l’italiano, tal mister Chen. Ed è lì che conosco Pasquale».

E ti ritrovi la tua faccia alle fermate degli autobus?
«Già, prima dell’inaugurazione, io pensavo si trattasse di un fotomontaggio, quando al mattino mi hanno inviato le immagini della mia faccia su un ponte di 30 metri o alla fermata dei pullman. E invece era una manifestazione dell’egocentrismo cinese».

La mentalità cinese è diversa dalla nostra. In cosa soprattutto?
«Noi puntiamo molto sull’artigianato, sulla qualità. In Cina si guarda molto di più ai numeri. Quando il ristorante italiano, che era da 110 posti, riscosse consistente successo consentendoci di avere 110 posti a pranzo ed altrettanti a cena, mi sentii proporre dall’imprenditore cinese: “Allora ora fare 10 turni da 110 posti”. Io declinai e spiegai che in Italia non funzionava così e che al centro delle attenzioni doveva essere il cliente».

Chi aveva ragione, giudicando a mente fredda?
«Entrambe le soluzioni hanno una loro logica, come dicevo è questione di mentalità. Noi italiani siamo così».

Poi torni ad essere docente, a San Francisco, all’interno di un college?
«In realtà il progetto Marco Polo Study abroad nasce a New York con un’azienda americana di un italiano trasferitosi lì molti anni fa. Ogni anno vado negli Stati Uniti affinché più studenti possibili possano venire a visitare l’Italia. A volte li abbiamo portati persino a casa nostra».

Differenze apprezzabili tra Cina e Stati Uniti?
«Innanzitutto parliamo di due superpotenze. Per noi italiani però gli Stati Uniti rappresentano ancora il sogno americano. Questo sogno ancora ci appartiene, ci è stata tramandata nel dna dai nostri avi. La Cina è una sorpresa per la capacità di coinvolgere, perché in Cina, come in Italia, tante cose importanti si decidono a tavola».

Anche l’ambasciata entra in gioco per il coinvolgimento degli studenti?
«Il progetto è nato con l’alberghiero di Roma e poi lo abbiamo spostato qui in Ciociaria. Dal 2015 portiamo avanti questo progetto con il Ministero degli Affari Esteri, con la Settimana della Cucina Italiana del mondo. La terza settimana di novembre in tutte le ambasciate e i consolati del mondo si tiene questa kermesse. Non solo a Parigi, l’ambasciata più vicina, ma anche in Uzbekistan, in Cina e altrove».

Un tuo ricordo particolare dell’Oriente?
«In Oriente la caratteristica di base è che si debbano seguire delle regole e noi che siamo un po’ più “creativi” su alcune cose possiamo avere all’inizio delle difficoltà».

Poi però ci si abitua?
«Sì, sicuramente e va considerato opportunamente che l’italiano è in linea di massima ben visto. Con Pasquale abbiamo condiviso la constatazione che la Francia avesse riguardo ad esempio all’enologia un’autostrada già aperta, noi no. Proprio per questo esistono dei margini di crescita, tanto nell’enologia che nella gastronomia».

Docente ma anche conduttore a un certo punto?
«Sì, ho fatto anche questa esperienza condividendo un format che parla di formazione didattica, divertimento e coinvolgimento degli alunni. Ad oggi vediamo personaggi molto importanti dell’enogastronomia, ma ben pochi mostrano quel che accade nei banchi di scuola. Noi abbiamo provato a colmare questa lacuna, con Alma Tv, cercando di divertirci insieme ai ragazzi, facendo una lezione in TV».

Tra i personaggi incontrati nel corso della carriera c’è anche Gabriella Carlucci?
«Sì, con lei abbiamo creato un altro programma in Spagna, promuovendo le eccellenze italiane. Abbiamo programmato un reality in cucina, mostrando come sia possibile adattarsi in cucina in un batter d’occhio, anche avendo a disposizione pochi ingredienti».

Chef, docente conduttore e imprenditore nell’ambito dell’export?
«Esatto. Nel 2018 nasce la società di export nel cui ambito mi occupo soprattutto di consulenza per l’apertura di ristoranti. Ha sede ad Hong Kong e che da poco sta portando avanti un progetto che ha in animo di applicare l’intelligenza artificiale alla ristorazione».

Quale strada consiglieresti a chi approccia al mondo del lavoro?
«Non mi va di dare consigli, perché non sono certo un guru. Quel che nel mio piccolo posso consigliare è di conoscere più persone e più realtà possibili. Non partire solo con un progetto rigido, ma aprirsi ad ogni possibilità che il confronto con le persone può generare».

Dopo il giro del mondo, torni però in Ciociaria. Con quale progetto?
«E’ ancora un po’ tutto in scatola, ma è un progetto made in Ciociaria. E’ un progetto di restalyng della ristorazione all’interno di un’importante compagnia di crociera».

All’alberghiero di Fiuggi c’è stata qualche mese fa una cena un po’ speciale…
«Sì, a febbraio si è tenuta una cena per ricordare Willy Monteiro Duarte e per aiutare, attraverso l’alta ristorazione, l’Associazione Insieme che si occupa di ragazzi con la sindrome di down. In tanti sono venuti da varie capitali europee per portare il loro contributo a una causa degna». Cucina come cultura, come messaggio, come momento di crescita e di consapevolezza. Questo è quanto ha diffuso e continuerà a diffondere, all’insegna del sapore, Felice Santodonato.

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