L'intervista
27.07.2025 - 16:00
Danilo Rea
Danilo Rea, virtuoso del jazz, pianista di fama internazionale, non abbisogna di presentazioni. Le emozioni che sa produrre con la musica non si possono catturare e descrivere con l’alfabeto convenzionale, ma proviamo comunque a raccontarlo un po’, partendo dalle origini.
Nasci a Vicenza. Come mai?
«Mio padre, di Cassino, lavorava a Vicenza come ispettore Inail e così io e uno dei miei fratelli siamo nati lì. Mi sento profondamente legato alla Ciociaria, perché a Frosinone ho moltissimi amici. Oltre alle origini dei miei genitori c’è infatti anche la mia frequentazione del conservatorio di Frosinone, dal quinto all’ottavo anno, quando c’era come direttore il grande Daniele Paris, che ha fatto cose stratosferiche. Molti di quegli studenti sono andati a finire nelle migliori orchestre italiane. Poi gli ultimi due anni li ho finiti al conservatorio Santa Cecilia a Roma, dove vivevo e vivo ancora oggi».
A metà degli anni 70 con Enzo Pietropaoli e Roberto Gatto formi un trio musicale...
«Sì, Roberto Gatto era già bravissimo, mentre Enzo aveva approcciato da poco con il contrabbasso, dopo aver suonato benissimo la chitarra. In meno di un anno era diventato bravissimo e così nacque questo gruppo, il “Trio di Roma”».
Dove suonavate?
«A quei tempi c’era a Roma il Music Inn, dove hanno suonato i più grandi jazzisti del mondo. Il proprietario era il principe Pignatelli, appassionato e addirittura suonatore di jazz. Lui chiamava i grandi interpreti americani e li faceva suonare lì, a due passi dal Tevere. L’ambiente era anche umido, si dovevano scendere le scale, adesso non sarebbe possibile, verrebbe ritenuto inadeguato. Pepito ebbe il coraggio di lanciarci quando avevamo solo 18 anni, facendoci interagire con dei “mostri” del jazz mondiale. Ci spedì in tour con il grande Lee Konitz. Fu una grande chance e noi la cogliemmo con entusiasmo».
Poi arriva Giovanni Tommaso, con il “New Perigeo”...
«Giovanni Tommaso per noi giovani era un mito. Lui era un arrangiatore della Rca, oltreché contrabbassista di livello internazionale. Ricordate il battito del cuore prodotto dal basso in “Cuore matto”? Ecco, quella fu un’idea di Giovanni Tommaso. Aveva appena arrangiato “Cervo a primavera”, di Cocciante, che in quel momento era primo nella hit parade con “Per un amico in più”. Era l’81, io mi ero appena diplomato al conservatorio e Tommaso mi propose di ricostituire il Perigeo, chiamandolo appunto New Perigeo. C’era la possibilità di andare in tour, accompagnando Rino Gaetano e Riccardo Cocciante».
Quale fu la tua riposta a questa proposta?
«Mi presi qualche giorno di tempo, per decidere se continuare con la musica classica o se cambiare genere per un po’, e decisi di tuffarmi in questa nuova avventura».
Un’avventura entusiasmante, vero?
«Sì, ho un ricordo splendido di quell’approccio con Rino e Riccardo, due bellissime persone. In realtà poi Rino ebbe quel maledetto incidente ed il tour, con ben 71 date, lo facemmo con Riccardo Cocciante. Facemmo soprattutto teatri tenda».
Che periodo era, musicalmente parlando?
«Tutti studiavamo per migliorare. I musicisti cercavano sempre soluzioni personali e non c’era omologazione, come invece mi pare avvenga un pochino oggi; sembra che la musica si sia un po’ ristretta e sia più schematica».
Torniamo a Gatto e al tuo rapporto con il jazz...
«In quella fase storica non c’erano così tanti musicisti jazz come oggi, perché i conservatori hanno sfornato tanti bravi professionisti. Ai nostri tempi eravamo pochi e siamo stati perciò dei privilegiati, perché andavamo a suonare con grandissimi interpreti americani. Inoltre c’erano tanti locali che ospitavano musica jazz».
C’erano anche film dedicati al jazz?
«Sì, il jazz era anche oggetto di film; ne ricordo in particolare due, con i grandi sassofonisti e strumentisti jazz che recitavano se stessi. Fu un periodo d’oro anche per questa presenza cinematografica, la gente si appassionò e sviluppò una curiosità specifica. Va detto che avesse persino un fascino un po’ perverso, perché ci fu una fase storica in cui le vicende di questi grandi autori s’intrecciavano con il consumo di droga, storie oscure e al tempo stesso poetiche. Perfino Clint Eastwood fece un film su Charlie Parker, dal titolo Bird, che era il soprannome del musicista. Il figlio di Clint, Kyle, è un musicista jazz».
Alla fine degli anni 80 la collaborazione con Pino Daniele...
«Sì, però per una serie di circostanze il tour con Pino mi saltò, perché avevo molti impegni con i miei gruppi, che erano meno famosi e, per dirla tutta, anche meno remunerativi. Io ci tenevo molto a onorare quegli impegni e così ci fu incompatibilità di date. Considerate anche che i tour con questi cantanti importanti possono durare davvero tantissimo. Io ho avuto comunque modo di conoscerlo e di apprezzarlo, collaborando con lui in tanti dischi».
Come hai conquistato la sua fiducia?
«Ricordo che inizialmente, quando Agostino Marangolo mi chiamò, Pino manifestò qualche dubbio, ma l’anno successivo a Formia mi fece ascoltare due o tre brani e io gli dissi “Fammi provare a suonare qualcosa sopra”, e con grande stupore scoprii che Pino aveva già registrato quelli che per me erano dei semplici tentativi di prova. Così iniziò un feeling che non si è mai interrotto. Abbiamo fatto due dischi insieme».
Hai collaborato come pianista di fiducia con Mina, Baglioni, Gino Paoli e Fiorella Mannoia...
«Sì, con Gino Paoli abbiamo fatto un duo che si chiamava “Due come noi che” con tre dischi prodotti. Abbiamo interpretato con “Due come noi che amano Napoli”, un repertorio sconfinato preso dai grandi compositori napoletani, degli autentici capolavori che abbiamo avuto il piacere di riproporre. Poi un altro disco lo abbiamo fatto prendendolo dagli chansonnier francesi, perché Gino, come tutti i cantautori della scuola genovese, era molto ispirato da questi brani».
E Fiorella Mannoia?
«Anche con Fiorella abbiamo fatto una tournée di 60/70 concerti. Con lei ci conosciamo da tanto e ritrovarsi sul palco in duo procura sempre grandi emozioni. Emozione, commozione e divertimento si fondono e procurano dei brividi autentici».
Anche con Mina una collaborazione lunga e proficua...
«Con lei avrò fatto venti dischi. Mina è umana, dolce e intelligente. Come cantante poi è davvero straordinaria e ogni volta che la ascolti ti viene da pensare: “Ma come fa a cantare così?”. Ricordo una volta che il brano “Ancora” di De Crescenzo riuscì a cantarlo salendo di tonalità fino quasi all’impossibile. Non è certo per caso che Frank Sinatra l’abbia corteggiata per una collaborazione, Liza Minelli idem. E Paul McCartney arrivò a scriverle in una lettera che una sua interpretazione di una canzone dei Beatles fosse a suo giudizio la migliore che avesse mai ascoltato».
Torniamo al jazz. Con Enzo Pietropaoli e Fabrizio Sferra create “I Doctor 3”...
«Sì, nel 1991 nasce questo gruppo che ottiene il premio per il miglior disco jazz italiano e poi arriva anche a bissarlo. Era un gruppo rivoluzionario, perché Sferra, il batterista, aveva sempre suonato jazz ed era un po’ a digiuno di altri tipi di musica. Io invece ero un po’ più avvezzo a frequentare altri tipi di musica e perciò arrivammo a sfruttare questo mix. La mia formazione un po’ eclettica portò a creare un disco abbastanza temerario, perché all’epoca prendere un brano famoso ed improvvisarci sopra con il jazz non era una cosa possibile. Abbiamo cambiato il linguaggio, l’espressione e perfino il grande Renzo Arbore ci diede atto di aver fatto qualcosa di diverso e in qualche misura di rivoluzionario».
Le tue improvvisazioni, i tuoi spazi in qualsiasi repertorio durante i concerti sono sempre apprezzatissimi. Ti inorgoglisce?
«Beh, ovvio che sia gratificante».
Andiamo alle altre iniziative. Nel 2011 insieme a Paolo Damiani, al crepuscolo avete improvvisato un concerto…
«Un amico, Mimmo Viola, ci chiamò e ci disse che voleva organizzare un concerto sul suo terrazzo. C’era una vista meravigliosa e l’intento era benefico. Così, con Paolo Damiani e Rashmi Bhatt, percussionista indiano, aderimmo e la cosa meravigliosa era che da tutti i terrazzi circostanti c’erano persone che ci ascoltavano, dai tetti antichi di Roma. Sembrava di essere sospesi per aria, c’era una luce particolare su Roma e ci fu un momento quasi mistico. Ne scaturì un dvd che finì su Repubblica, con l’intero incasso devoluto a Emergency, la onlus di Gino Strada».
Hai accompagnato Gino Paoli anche a Sanremo?
«A Sanremo sono stato tre volte. La prima volta con Gino ci fu anche un momento un po’ imbarazzante perché io dovevo iniziare con un assolo di tre minuti prima di passare la palla al duo, ma il conduttore non mi aveva presentato. Gino comprese, iniziò a parlare e fu lui in pratica a presentarmi. Poi sono tornato un’altra volta con Fiorella Mannoia, la prima volta che lei decise di cantare a Sanremo. Poi ci fu un’altra serata in cui Claudio Baglioni, che presentava, invitò Gino e me ed ebbe la bellissima idea di aggregarsi e così ci ritrovammo in trio».
Claudio Baglioni, altro big con il quale hai collaborato per anni...
«Io stimo enormemente Claudio, con il quale ho fatto tanti concerti. Lui ha una preparazione superiore a quasi tutti gli altri, è un musicista molto ricco e difficile da interpretare. Ha sempre l’armonia giusta al momento giusto e lavorarci insieme mi ha insegnato tantissimo. Si è parlato di fare un tour insieme, ma io non so se riuscirei ad accompagnarlo per due o tre ore di spettacolo nella maniera giusta. Baglioni è tra i pochissimi ad avere scritto non i soliti sei, sette brani hit, ma almeno venticinque. Per cinque anni abbiamo collaborato costantemente, poi ci siamo un po’ allontanati ma non persi, perché manteniamo contatti continui».
Celentano invece lo hai frequentato meno?
«Io in realtà con Celentano ho collaborato nel disco “Acqua e sale” con Mina. Poi avevamo preso accordi per altre collaborazioni, ma non andarono in porto per una serie di impegni concomitanti. Di fatto lo conosco pochissimo. Devo dirvi che ho anch’io una recriminazione: io sono cresciuto con le canzoni di De André e Battisti. Un giorno vidi Battisti all’Hilton ai tempi della Rca, lo vidi apparire in corridoio, ma lui era molto schivo ed io, che ero molto giovane, pur amandolo, non ebbi il coraggio di avvicinarmi a lui. Quanto a Fabrizio, quando lui incise con Mina “La canzone di Marinella”, io suonai ma lui non era presente e Mina ci spiegò che nelle parti in cui lei non cantava avrebbe cantato Fabrizio. Io poi ho tributato in Germania un omaggio a De André, con un disco che ritengo sia tra i migliori che ho fatto, ma non ho avuto la soddisfazione di conoscerlo. Lui era davvero immenso».
E adesso quali sono i tuoi impegni?
«Gli impegni ci sono sempre. Sto facendo dei progetti molto originali, non del tutto miei, ma quando mi arrivano degli input io raccolgo le sfide. Mi è stato proposto da Roberto Grossi e Stefano Mostruzzi di provare a duettare, grazie alla tecnologia digitale e all’esperto del settore Andrea Proietti, con grandi lirici del passato, con voci estrapolate da vinili di oltre cento anni fa. Quindi la voce di Caruso, della Callas, sovrastate da immagini relative al compositore e all’aria che loro cantano, viene a interagire con le mie improvvisazioni. È un viaggio onirico, per me bellissimo. È un concerto che dura un’ora e dieci, da Mascagni a Verdi, passando per Puccini e Caruso. Questo repertorio fuori dall’Italia è particolarmente rappresentativo, perché l’italiano all’estero è conosciuto soprattutto per la musica lirica».
C’è anche un’altra cosa, però...
«Sì, c’è una cosa che faccio con Barbara Bovoli, un’attrice bravissima. Lei si è documentata su Billie Holiday e legge una storia, la vera storia di questa donna straordinaria. Io ho il copione davanti e accompagno ogni sua inflessione. Poi c’è mia figlia Oona, che è una cantante e ha una voce che in qualche modo può richiamare la voce di Billie Holliday. Si passa dalla narrazione al canto ed è una cosa innovativa anche questa».
C’è anche uno spettacolo multimediale?
«Sì, è una cosa a cui tengo molto. Ci sono dei video fatti da un videomaker argentino, musicista elettronico, ed io omaggio la musica di Sakamato, che tra tutti è il musicista nel quale mi rivedo. Lui ha esplorato tutto il campo musicale, dalla musica pop all’elettronica, alle colonne sonore. Purtroppo è mancato un paio di anni fa ed io mi impegnai a dedicargli un tributo, cui ora abbiamo aggiunto anche questo contributo di musica elettronica». Questo è solo uno stralcio di quel che Danilo Rea ha interpretato, vissuto, realizzato, nel mondo meraviglioso della musica, che lui onora quotidianamente con entusiasmo e qualità eccelse.
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