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L'omicidio

Serena Mollicone, il giorno del giudizio

Oggi l’ultima udienza del processo d’appello. Chiesti 24 anni per Franco Mottola, 22 per la moglie e il figlio. Repliche e controrepliche, poi la camera di consiglio e la decisione. In primo grado tutti gli imputati erano stati assolti

serena mollicone

Lo striscione davanti alla corte d'appello di Roma

A ventitré anni dall’omicidio di Serena Mollicone l’attesa per la sentenza di secondo grado fissata per oggi è difficile da descrivere. Per la famiglia della studentessa, che dopo oltre due decenni chiede giustizia, e per gli imputati. Assolti in primo grado con formula piena e dallo scorso ottobre di nuovo in aula, a Roma. Ma anche per Maria, la figlia del brigadiere Santino Tuzi, perno dell’inchiesta che ha portato a guardare all’interno di una caserma, della sua caserma.


Questa mattina dopo repliche e controrepliche avrà inizio la lunga camera di consiglio che porterà alla decisione per l’ex maresciallo Franco Mottola, per sua moglie Anna Maria e il figlio Marco, per i quali i pg hanno chiesto rispettivamente 24 anni per il primo e 22 per gli altri due. Ma anche per Vincenzo Quatrale (nei cui confronti i pg hanno chiesto l’assoluzione) e per Francesco Suprano, che dopo la rinuncia alla prescrizione rischia 4 anni. A parlare in questa lunga giornata sono ancora una volta i numeri, che neppure in primo grado hanno scherzato, con quasi 50 udienze. In appello, dopo altre 18 udienze e 44 testimoni ascoltati - tra conferme e colpi di scena - a due anni dalla sentenza di primo grado si arriverà a una verità processuale importante, per uno dei casi più complessi, non solo perché indiziario. Dentro c’è tutta l’Italia: quella fatta di passioni, di ideali, di lotte. Di diritto e di analisi, di scienza e di segreti. Di rivelazioni inattese, di silenzi, di scoperte e colpi di scena. Di coraggio.

Le fasi e i tasselli chiave
Il ricorso proposto dalla procura di Cassino avverso la sentenza di primo grado è stato depositato a fine marzo dello scorso anno. Nei motivi d’appello è stato chiesto che la sentenza fosse completamente riformata, sottolineando come per la pubblica accusa le motivazioni della Corte d’assise di Cassino fossero in parte «illogiche» e «contraddittorie». Un ricorso in cui la procura ha definito la condotta dei Mottola «spietata». Poi il rimando al caso Vannini (rilanciato dai pg in appello) e la centralità della figura di Tuzi, ritenuto attendibile. Quindi la richiesta di inserire nuovi elementi, come le dichiarazioni di Iommi, il barbiere che fece i capelli a Marco 23 anni fa (passaggio negato prima della sentenza a Cassino). Ammesso in appello, invece, insieme ad altri tre testi mai ascoltati. Chiara la volontà di rinnovare l’istruttoria, con l’audizione ancora di Carmine Belli, il carrozziere arrestato in prima battuta per la morte di Serena, poi assolto in tutti i gradi di giudizio. La battaglia che si è aperta davanti alla Corte d’assise d’appello di Roma, iniziata nove mesi fa, non è stata facile. L’accusa e le difese si sono confrontate a colpi di prove, ricostruzioni e analisi scientifiche. Quattro i tasselli chiave anche in appello: il luogo dell’omicidio, l’orario della morte di Serena, l’arma del delitto, il movente. Per i pg Serena «entra in caserma e non vi esce più»: dopo la ricostruzione degli spostamenti della studentessa, i procuratori generali cementificano le parole dell’amico e compare di Tuzi, Malnati, che in secondo grado cambia versione. «Santino mi confessò di aver visto entrare Serena in caserma e di non averla vista più uscire» afferma il 23 maggio scorso, spiegando anche il motivo per cui prima non avesse parlato. Per la difesa degli imputati, invece, non ci sono «prove solide» ma solo elementi scollegati, non in grado di provare la colpevolezza dei loro assistiti. «La domanda a cui devono rispondere i giudici non è se Serena sia entrata in caserma ma se gli imputati l’abbiano uccisa» rilancia l’avvocato Di Giuseppe, uno dei legali del pool dei Mottola, nella discussione. Stesse antitetiche posizioni su arma, movente e orario della morte. Per la procura la porta dell’alloggio a trattativa privata della caserma resta l’arma del delitto: Serena sbattuta contro la porta ma lasciata morire soffocata a causa del nastro adesivo e del sacchetto che le saranno apposti sul capo. I frammenti lignei e di resina isolati sui nastri sarebbero per l’accusa compatibili con il materiale della porta. Considerazioni affatto condivise della difesa degli imputati, che ha invece sottolineato come sulle 28 tracce isolate, solo 6 mostrerebbero un’alta compatibilità. «Se su quella porta ci fosse stata una sola traccia di Serena, il processo sarebbe finito» attacca l’avvocato Germani per i Mottola. Una speculare battaglia tecnica - con professori ed esperti a confronto - per stabilire l’orario della morte. Il movente resterebbe per l’accusa la volontà di denunciare Marco per il consumo di droga ad Arce, ma «durante i processi ciò non emerge». E rappresenta per la difesa dei Mottola un punto di «incertezza delle indagini». Resta, poi, un altro mistero: quello delle impronte trovate sui nastri che cingevano Serena e che non appartengono agli imputati.

La figura di Tuzi
Centrale, anche nel processo d’appello, la figura di Santino Tuzi. Il primo che indicò - sette anni dopo - la presenza di Serena in caserma per poi ritrattare e ribadire ancora la prima versione, prima di togliersi la vita con la pistola d’ordinanza. La figura di Tuzi è centrale anche nella requisitoria il pg Landolfi, che ha affermato come il brigadiere «sia stato l’ultimo a vedere questa ragazza viva», la cui testimonianza (quella del 28 marzo 2008) è «assolutamente credibile». «Inattendibile» invece per la difesa degli imputati, che hanno ritenuto illogico il silenzio di Tuzi, durato sette anni. «Siamo molto fiduciosi, i testimoni ascoltati hanno detto ciò che sapevano. In primo grado hanno provato a rendere la figura di mio padre inattendibile ma gli elementi emersi in appello, come pure le valutazioni fatte, ad esempio, dalla professoressa Volpini - ha affermato la figlia Maria Tuzi - sono chiari. La decisione spetta ai giudici, ma noi ci crediamo. Mi dispiace solo che lui non ci sia, avrebbe potuto chiarire tante cose».

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