Il film
16.02.2024 - 20:57
Il 17 febbraio del 1984, e quindi esattamente quarant'anni fa, in un cinema di Boston venne organizzata la prima proiezione (ad inviti) di "C'era una volta in America", il celebre film di Sergio Leone che sarebbe poi diventato uno dei più apprezzati della storia del cinema mondiale. La casa di produzione cinematografica "The Ladd Company", in ossequio a una tradizione tutta americana, prima di distribuirlo voleva infatti provare a conoscere in anticipo l'opinione ed il gradimento di un ristretto pubblico campione.
Per una serie di ragioni, tuttavia, quel preventivo "screening test" nacque sotto foschi presagi ed ebbe anche un pessimo esito. Tanto è vero che quella fredda ed uggiosa sera di pieno inverno, la visione del film non solo iniziò con notevole ritardo, ma venne anche sospesa per diversi minuti a causa di un imprevisto problema tecnico. Buona parte degli spettatori (i quali peraltro erano stati avvisati soltanto all'ultimo momento che la pellicola alla quale stavano per assistere era lunga ben tre ore e quarantasette minuti...) si alzarono e se ne andarono via prima della fine; inoltre i loro giudizi – espressi sui questionari di gradimento che furono poi compilati all'uscita dalla sala – risultarono impietosi: il film, infatti, fu ritenuto troppo lungo, confuso ed eccessivamente violento.
Quel clamoroso insuccesso suggerì di annullare frettolosamente la replica della proiezione che era stata programmata a Washington per il giorno seguente. Con l'obiettivo di tentare di renderlo più gradito al pubblico americano, i produttori ed i distributori provarono a convincere Leone a tagliare molte scene. Il regista tuttavia si oppose, non solo perché su quel progetto ci aveva lavorato alacremente per molti anni, ma – anche e soprattutto – perché rispecchiava in maniera perfetta la sua idea di narrazione, di visione culturale e storica, di cinema. E non intendeva in alcun modo stravolgerlo, sacrificando, sull'altare del profitto, le molteplici peculiarità artistiche che lo avevano ispirato.
Per tutti coloro i quali volessero approfondire l'argomento, ed in particolare la tormentatissima genesi di quel capolavoro assoluto della Settima Arte del Novecento, suggerisco vivamente la lettura della splendida monografia a firma di Piero Negri Scaglione, pubblicata da Einaudi, ed intitolata "Che hai fatto in tutti questi anni – Sergio Leone e l'avventura di C'era una volta in America" (241 pagine). Quel film leggendario – sempre presente nelle classifiche dei migliori della storia del cinema – è liberamente tratto dal romanzo "The hoods", dello scrittore statunitense di origini ucraine Harry Grey (pubblicato in Italia sotto il titolo di "Mano armata"), che narra le avventure di un gangster americano degli Anni Trenta. La storia colpì in maniera indelebile l'immaginazione del regista romano, stimolandolo a raccontare in maniera cruda – ma al tempo stesso "romantica" ed appassionata – l'America del cuore del XX secolo.
Tanto è vero che, in occasione di un'intervista, lui stesso rivelò: «Ho capito che essa mi permetteva di mettere a nudo certi sentimenti, certe contraddizioni, la tenerezza, il tradimento, la passione, l'amore, il sesso, la violenza. L'infanzia. È poi una storia di amicizia virile tra due uomini, un tema dominante in quasi tutti i miei film... è un film sui ricordi, miei e della mia generazione, che si sono formati sui libri di Dos Passos, Chandler, Hemingway, Hammett. E sul cinema. Il sottotitolo del film potrebbe essere "C'era una volta un certo tipo di cinema"».
Scaglione evidenzia che Leone, sin dal primo momento, aveva le idee molto chiare su quello che sarebbe poi diventato lo scintillante vertice della sua fortunata carriera. Ed infatti, ad esempio, per anni si era dedicato a raccogliere migliaia di fotografie d'epoca, che dovevano aiutarlo a ricostruire il più fedelmente possibile, sul set, l'America che aveva in mente. Lo sceneggiatore Enrico Medioli ricorda che «se le guardava come le figurine. Lì c'era già il film. A differenza di tanti altri, Sergio pensava per immagini».
Per riuscire a realizzare quel visionario sogno professionale, Leone doveva per prima cosa acquisire i diritti cinematografici del romanzo (e la cosa risultò lunga, molto difficile e costosa), e poi dedicarsi a costruire, sulla sua ossatura narrativa, la giusta sceneggiatura.
Dato che desiderava «una scrittura cinematografica forte, letteraria» – che avrebbe dovuto «lasciare una testimonianza del cinema che ho sempre amato» – nell'aprile del 1972 chiese a Leonardo Sciascia di scriverla. Tuttavia la scintilla di una proficua collaborazione professionale tra i due non scoccò mai, ed il grande scrittore siciliano rinunciò subito all'incarico. Il regista capitolino si rivolse allora ad uno dei più apprezzati romanzieri dell'epoca: Norman Mailer. Ma il suo testo (che peraltro venne assai ben pagato...) fu rapidamente scartato perché ritenuto non adatto a quello che Sergio voleva dirigere. Mano a mano che il tempo passava Leone si rese conto che la cosa migliore da fare era quella di creare una squadra di sceneggiatori "ad hoc", ai quali affidare la scrittura delle varie ed articolate parti del film; che, come osserva acutamente Scaglione nella sua monografia, «si immerge completamente nella tradizione del cinema americano e nella sua struttura in tre atti (introduzione, e cioè l'infanzia; confronto e scontro, ovvero la giovinezza; risoluzione della crisi, vecchiaia), ma la stravolge, in una certa misura la nega, la supera. Il passato è nel presente, e forse lì c'è anche il futuro... Leone si diverte a inventare transizioni temporali mai viste prima...».
Il risultato di questo lavoro a più mani – che venne compiuto da alcuni dei più bravi sceneggiatori dell'epoca (e cioè Leonardo Benvenuti, Piero De Bernardi, Enrico Medioli, Franco Arcalli, Franco Ferrini e, ovviamente, lo stesso Sergio Leone) – fu estremamente convincente. Nel corso del film, infatti, i flashback ed i flashforward si intrecciano mirabilmente, creando un irresistibile ed ammaliante flusso scenico che è rimasto nella memoria e nell'immaginario collettivo di milioni di persone. Tanto è vero che Quentin Tarantino ha definito quella di "C'era una volta in America" la più bella sceneggiatura che sia mai stata scritta.
Evidenzia a tal proposito Scaglione che nella storia di quel film leggendario c'è «un'avventura dello spirito, che può essere certamente definita proustiana, ma è anche detection, indagine poliziesca, quest cavalleresca. Epica. C'è in ballo il destino di un intero paese in questa storia, anzi, qualcosa di più, una comunità dello spirito, l'America, che è ben più vasta di una nazione con i suoi confini, la bandiera e il passaporto. È l'America che tutti abbiamo immaginato e alcuni sognato, della quale l'eroe (o l'antieroe), la sua massima espressione, è il gangster, che ci piaccia o no. Il gangster è, letteralmente, tutti noi. Da lui dipende il nostro destino. È un'epica moderna. Però è impossibile dimenticare che tutto si muove seguendo la meccanica potente del desiderio, in tutte le sue sfumature, anche quella (taciuta, è pur sempre un gangster movie...) di natura omoerotica presente nel legame tra Max e Noodles.
I due eroi/antieroi, compagni/antagonisti fanno sesso con le stesse donne. Con Deborah e Carol, Noodles è violento; con Peggy impacciato, sbrigativo... Franco Ferrini mi ha spiegato come trovare nella sceneggiatura di "C'era una volta in America", Whitman, Proust, Faulkner, Hammett, Shakespeare, Fitzgerald, Freud, Jung, senza neppure cercarli, abbandonandosi all'arte di chi sa costruire storie».
L'oggettiva imponenza del progetto cinematografico che Leone voleva realizzare (un casting gigantesco, decine di ricostruzioni fedelissime, un'attenzione verso i dettagli che spesso è maniacale) determinò inevitabilmente un aumento esponenziale dei costi inizialmente preventivati, cosa che per diverso tempo scoraggiò molti produttori dal finanziarlo.
Tanto è vero che a Cannes, nel 1979, il regista confessò, con malcelata amarezza: «È un film maledetto quello che cerco di realizzare da otto anni senza riuscirci... la cosa più curiosa riguarda i motivi per i quali non lo si riesce a realizzare. Le grandi case americane non lo accettano perché dicono che, così come è scritto, è troppo poco americano... anzi, è troppo caro per essere europeo e troppo poco costoso per essere americano».
Per cercare di convincerle, ma soprattutto perché riteneva che lui fosse la persona più adatta ad impersonare il protagonista (chiamato confidenzialmente "Noodles"), Leone, che in un primo momento aveva pensato a Paul Newman e Gerard Depardieu, scelse Robert De Niro. Il quale, a dire il vero, in un primo momento, aveva rifiutato la proposta.
Le riprese iniziarono il 14 giugno del 1982, alle ore 9.30 del mattino, al Teatro della Cometa di Roma. Racconta Scaglione: «Si gira la scena che apre il film, il duello delle ombre che rappresentano Rama e Rayana, il Bene e il Male. Tra gli attori, Olga Karlatos e Mario Brega. Qualcuno è preoccupato, molti sono curiosi... arriva Leone, dice solo: Namo dentro, va'. Poi si siede, guarda in macchina e via, come se avesse smesso il giorno prima» (anche se in realtà erano passati ben dodici anni dalla sua ultima direzione "Giù la testa"). Il set di "C'era una volta in America" chiude nel giugno dell'anno successivo. Subito dopo, i duecento chilometri di pellicola che sono stati girati, passano in sala missaggio, dove vengono lavorati dal regista fino all'inizio del 1984. La versione definitiva viene poi spedita negli Stati Uniti per la fase della postproduzione, ed in vista del lancio.
Dopo lo screening test del 17 febbraio, del quale abbiamo parlato all'inizio, i produttori ne organizzano un altro a Burbank, nei dintorni di Los Angeles. La nuova proiezione (con una versione del film che durava solo 180 minuti) va decisamente meglio, ma gli americani sono intenzionati a ridurre ulteriormente la durata della pellicola. Leone si oppone, e minaccia di fare causa alla casa cinematografica. Lo scontro sembra inevitabile, anche se poi, per fortuna, non succederà nulla. Nel frattempo si avvicina la data della prima ufficiale (fissata per il 20 maggio). Essa costituirà l'avvenimento più importante della trentasettesima edizione del Festival di Cannes che sta per iniziare.
Scaglione a tal proposito scrive: «La proiezione di gala è un trionfo. I biglietti costano l'equivalente di 80.000 lire e sono da tempo esauriti. Alla fine, i minuti di applausi sono circa quindici, un eternità». Poi aggiunge: «Il film esce negli Stati Uniti il 1° giugno del 1984, all'insaputa del suo regista. È, ovviamente, la versione americana, tagliata e rimontata... che prelude al disastro. Il film è infatti costato 30 milioni, e, nel primo weekend, quello decisivo, incassa, in quasi novecento sale, solo 2.412.014 dollari. Una miseria. Resiste tre settimane, e arriva a superare a malapena i 5 milioni... a nessuno viene in mente di candidare il film agli Oscar... si può ben dire che l'America abbia fatto di tutto per non vederlo. O rivedersi negli occhi di Leone. Nel suo modo di vedere le cose».
Tuttavia, «otto anni dopo, nell'ottobre del 1992, Arnon Milchan annuncia la prima vera uscita del film negli Stati Uniti... la versione tagliata è stata un errore collettivo, dice al New York Times. C'era chi pensava che il pubblico americano non fosse pronto per un film così lungo. E parte della colpa è mia. Non mi sono battuto abbastanza per salvare la versione completa, ero entrato da poco in questo business. Nel resto del mondo, dove è uscita la versione integrale, i critici lo hanno definito un capolavoro. In Europa è stato un enorme successo. Qui no. Sergio, la versione tagliata, non l'ha mai voluta vedere».
Commenta a tal proposito Scaglione: «Per Leone fu una rivincita tardiva, parziale, ma vera. E postuma. Quando il film esce per davvero in America, lui è morto da più di tre anni, il suo cuore malato ha ceduto nella notte tra il 30 aprile e il 1° maggio del 1989». Ma – come tutti sappiamo – quel "cuore" ci ha lasciato uno dei più bei capolavori della storia del cinema di ogni tempo.
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