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L'anniversario

George Gershwin, un genio senza tempo

Newyorkese di Brooklyn, aveva origini russe. È considerato l'iniziatore del musical statunitense. Il jazz e l'influenza su tutta la musica del Novecento

George Gershwin, un genio senza tempo

Il 26 settembre del 1898, e dunque centoventicinque anni fa, venne alla luce uno dei più grandi ed importanti compositori del Novecento: George Jacob Gershwin. La sua straordinaria importanza e la sua influenza nella storia della musica moderna sono universalmente riconosciute. Egli infatti non solo ebbe il merito di scrivere alcune tra le più belle e famose opere del Novecento (si pensi infatti a "Rhapsody in blue", a "Porgy and Bess" ed a "Un americano a Parigi", che peraltro contenevano arie immortali, come ad esempio la bellissima "Summertime"), ma fu anche l'antesignano del moderno "musical", l'autore di numerose colonne sonore di successo ed è considerato come tra i maggiori innovatori dell'arte musicale di ogni tempo; questo perché, attraverso le sue variegate ed articolate composizioni, rappresentò un evidente punto di contatto tra il jazz, la musica classica, il blues, e la musica popolare e tradizionale americana.

Tale eterogeneità compositiva era certamente il prezioso frutto della sua complessa visione artistica. Egli infatti riteneva in generale che «l'arte è ciò che l'immaginazione umana concepisce, e la mano umana costruisce, servendosi di parole, suoni, colori, forme e sostanze materiali per suscitare le emozioni umane, o l'umano intelletto, ovvero l'uno e l'altro, in modo tale da riprodurre nell'ascoltatore e nello spettatore uno stato emozionale o mentale, ovvero l'uno e l'altro, simile a quello di cui lo stesso artista ha avuto esperienza». E, riferendosi poi all'ambito artistico che lo riguardava più da vicino, sosteneva che «la musica è un'arte che ci tocca direttamente attraverso le emozioni... ha la meravigliosa facoltà di imprimere un'immagine nella mente di qualcun altro... l'unica cosa, nella musica, sono le idee e il sentimento... mi piace pensare alla musica come ad una scienza delle emozioni... non credo possa esistere una composizione musicale meccanica senza sentimento».

Proprio in forza di tali radicati assunti, ed immaginando il rilievo che, nel futuro, avrebbero poi avuto le nuove tecnologie, Gershwin riteneva imprescindibile l'apporto creativo umano, tanto è vero che non solo era fermamente convinto che «nella composizione musicale il lavoro fatto a mano non potrà mai essere sostituito con qualcos'altro. Se mai la musica diventasse fatta a macchina, cesserebbe di essere arte», ma anche che (forse esagerando...) «la radio e il fonografo sono dannosi, nel senso che imbastardiscono la musica e mettono in circolazione tanta roba scadente».

Questa originale visione artistica fu certamente condizionata dalla profonda incidenza che, sulla formazione della sua metodologia creativa, ebbe il jazz, nuovo genere musicale che, dopo il declino del ragtime (che aveva spopolato negli States tra la fine dell'Ottocento e gli Anni Venti), cominciava a farsi largo nel panorama musicale statunitense, ponendosi – di fatto – come un dirompente elemento coagulante delle tradizioni popolari musicali americane; e ciò sino ad arrivare a rappresentare, in pochi anni, un vero e proprio punto di riferimento delle migliori e più importanti figure artistiche del primo Novecento.

A tal proposito Gershwin infatti ebbe occasione di scrivere che «il jazz è un conglomerato di molti elementi: c'è qualcosa del ragtime, del blues, del classico e degli spiritual... è il risultato delle energie immagazzinate dall'America. È un genere di musica molto energetica, rumorosa, impetuosa... è un linguaggio da non limitare a una semplice canzone con il ritornello, che si esaurisce nel corso di un'esecuzione che dura solo tre minuti... non è soltanto un ritmo ballabile... può assumere un piglio epico... la musica, per essere autentica, deve esprimere i pensieri e le aspirazioni del proprio popolo e del proprio tempo. Il mio popolo è quello americano, il mio tempo è l'oggi. Del domani, e del mio domani, io – quale interprete, attraverso la musica, della vita americana – sono sicuro di una cosa sola: che la musica futura manterrà nella sua essenza la melodia e l'armonia d'oggi abbastanza da poterne riconoscere l'origine. Conterrà sicuramente qualche traccia di ciò che era deriso ieri, che è stato accettato oggi, e che forse sarà esaltato domani: il jazz».

Il grande compositore colse immediatamente la forza emotiva, il senso estetico ed il ritmo di questo nuovo linguaggio sonoro, tanto è vero che, in uno dei suoi scritti, spiegò in maniera molto chiara attraverso quale percorso si era ritrovato a comporre melodie così particolari ed articolate rispetto a quelle che, sino a quel momento, erano state ascoltate negli Stati Uniti: «Nato a New York e cresciuto fra i newyorchesi, ho sentito la voce dell'anima del popolo americano. Mi parlava per strada, a scuola, a teatro. La sentivo nel coro dei suoni della città. Sebbene di famiglia russa, a tale origine non devo alcuna sensibilità per la musica: nessuno in famiglia vi ha mostrato interesse, salvo mio fratello Ira e me... nessuno si aspettava che componessi musica. L'ho semplicemente fatto.

Ciò che ho fatto è ciò che era in me, la combinazione di New York, dov'ero nato, e il suo ritmo crescente ed esilarante, con centinaia di sentimenti ereditari dietro di me... dovunque andassi udivo convergere una molteplicità di suoni. In gran parte essi non potevano essere uditi dai miei compagni, perché io li sentivo nella memoria: melodie dall'ultimo concerto, i cigolanti motivi di un organetto, la cantilena di un cantante di strada sull'obbligato di un violino scassato. Musica, passata o presente, tutto ciò udivo dentro di me... e quale è la voce dell'anima americana? È il jazz, che è il canto delle piantagioni perfezionatosi e sviluppatosi in armonie più raffinate ed evolute».

Ed a chi gli chiedeva da dove venisse fuori quell'affascinante miscuglio di melodie, ritmica frenetica, e tecnica musicale (che non di rado era infatti basato su impegnative improvvisazioni musicali), il grande musicista newyorchese rispondeva, testualmente: «Parlando del jazz deve essere assolutamente sfatato un pregiudizio: quello che esso sia essenzialmente negro. I negri certamente vi si dedicano, però nella sua essenza il jazz non è più negro di quanto lo sia il ritmo sincopato, che esiste nella musica di tutte le nazioni. Il jazz non è negro, ma americano... Lo spirito americano si esprime attraverso i "canti dei negri"? Noto un'espressione di scherno. Oh, sento la derisione dei saccenti. Io rispondo di sì, che include anche quelli. Ma è di più. No, non sto affermando che l'anima americana sia negra. Però essa è una combinazione che include il lamento, il pianto e la nota d'esultanza dei vecchi canti delle balie del sud. È negra e bianca. È tutti i colori e tutte le anime, uniti nel grande crogiolo del mondo. Suo segno dominante è il palpitante ritmo sincopato. Se fossi un asiatico o un europeo che un aeroplano all'improvviso avesse fatto atterrare su questo suolo, e ascoltassi con vergine orecchio il coro dei suoni dell'America, direi che la vita americana è nervosa, affrettata, sempre in accelerando; e lievemente volgare. Userei la parola "volgare" senza intenzioni offensive. C'è una volgarità che è novità. È essenziale. Il charleston è volgare, eppure ha una forza e una materialità che sono aspetti essenziali di questa sinfonia di suoni...».

Comunque la si pensi in proposito, è innegabile che George Gershwin fu un vero e proprio innovatore. Il musicologo americano Charles Hamm ha evidenziato infatti che «Gershwin ideò un genere di musica "classico-leggera" per le masse, preconizzando così la creazione di un repertorio "classico" accessibile a più larghi strati della popolazione americana; un repertorio che si diffuse negli Anni Trenta e Quaranta, in sintonia con gli ideali e la politica del "New Deal" rooseveltiano».
Il compositore austriaco Arnold Schonberg a sua volta ebbe a dire: «Ciò che ha creato con il ritmo, con l'armonia, e con la melodia, non è esclusivamente un fatto stilistico. È profondamente diverso dal manierismo di molti compositori... le sue melodie non sono il risultato di una combinazione di un'unione meccanica, sono unitarie, e non possono quindi essere smembrate. Melodia, armonia e ritmo non sono saldati insieme, ma colati in un unico stampo... l'impressione che se ne ricava è quella di un'improvvisazione, con tutti i pregi e i difetti di un processo creativo di questo tipo».

Il critico musicale Gianfranco Vinay ha osservato acutamente che «la costante ambiguità maggiore-minore, ispirata dal blues e dalle sue assimilazioni jazzistiche, l'atmosfera blues della Rhapsody, che avvolge pure le canzoni in tutto o in parte, è l'altro elemento che dona alla musica di Gershwin la sua inconfondibile "tinta". Una "tinta" che mutua certamente ambiguità modali e scivolamenti cromatici dalle peculiarità armoniche e melodiche del blues, ma anche dal temperamento di colori estratti da modelli colti... dell'universo sonoro circostante Gershwin seleziona quei linguaggi, colti ed extracolti, che possono integrarsi fra loro: in tal senso l'esotismo vero è prediletto, perché diviene crogiolo di fusione tra certe peculiarità armoniche dei classici a lui più congeniali, e peculiarità, pertinenti ed omologhe, del blues, del ragtime e affini».
Infatti la metodologia compositiva di Gershwin, sebbene avesse una chiara impronta jazzistica, spesso aveva anche evidenti agganci con la cosiddetta "musica colta", quella "classica", per intenderci.

Una volta, il grande compositore e direttore d'orchestra Leonard Bernstein rilevò argutamente che, nella celebre "Rhapsody in blue", «l'America vola via dalla finestra, e Cajkovskij entra dalla porta con tutti i suoi seguaci». Ma in verità sono parecchi quelli che ritengono di poter individuare, in molte delle composizioni gershwiniane, elementi di richiamo con le composizioni e le soluzioni armoniche e melodiche tipiche di Chopin, Listz e Debussy. Tale lettura ermeneutica delle sue produzioni artistiche fu implicitamente confermata dallo stesso autore newyorchese (il quale era ben consapevole delle qualità creative che possedeva), tanto è vero che egli, una volta, disse che «il jazz, nelle mani di un compositore che abbia talento sia per la musica jazz che per quella sinfonica, si può assumere come base per lavori sinfonici di duraturo valore». E le sue opere, infatti, ne sono la pratica dimostrazione.

George Gershwin ebbe una carriera straordinaria, che lo rese ricchissimo, e famoso in tutto il mondo. Basti pensare che, nel 1932, un suo concerto ebbe 18.000 spettatori paganti (ed altri 5.000 rimasero fuori, privi di biglietto...), e che durante una delle sue innumerevoli tournée, e quindi escludendo tutti i diritti d'autore e quanto incassato dalla vendita dei dischi, guadagnava circa 8.000 dollari al mese (che corrispondono, al cambio attuale, all'incirca a 130.000 euro...). Nel 2005, il quotidiano inglese "The Guardian", stimò che sia stato il più ricco compositore di tutti i tempi.
Morì a Los Angeles, a causa di un tumore al cervello, a soli 38 anni, l'11 luglio del 1937.

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