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Storia

Italia-Brasile, la partita delle partite: un evento indimenticabile

1982-2022, la rinascita ai Mondiali di calcio di Spagna. Una gara che ormai fa parte dell'immaginario collettivo e che ha segnato l'esistenza di molti

Quando mi capita di andare indietro con la memoria e di pensare a quali siano stati gli eventi che hanno segnato in maniera positiva la mia esistenza, il ricordo va spesso a quello che accadde esattamente quarant'anni fa, nella lontana estate del 1982; e precisamente a quando la Nazionale Italiana di calcio riuscì a vincere (peraltro in maniera del tutto inaspettata) i Mondiali di calcio in Spagna. L'apice emotivo di quei giorni memorabili fu senza dubbio la finale dell'11 luglio (vinta battendo 3 a 1, al Santiago Bernabeu di Madrid, la solida Germania Ovest).

Tuttavia, molto probabilmente, l'emozione più violenta ed inattesa di quell'incredibile trionfo sportivo la regalò agli italiani la partita che era stata disputata sei giorni prima contro il Brasile, compagine che era composta da grandissimi campioni (Falcao, Zico, Cerezo, Eder, Junior, Socrates, solo per citarne alcuni...), che era la principale favorita del torneo e che ancora oggi è considerata una delle più forti squadre nazionali di ogni tempo, assieme all'Ungheria di Ferenc Puskàs, al Brasile di Pelè del 1970, ed all'Olanda di Johann Cruijff del 1974. Sulla base di queste premesse, e dopo un girone eliminatorio piuttosto opaco che aveva visto qualificarci per la seconda fase del torneo solo grazie alla differenza reti, quella degli Azzurri sembrava una sorta di "morte annunciata".

Ed infatti la maggior parte dei giornalisti dell'epoca, di quella prevedibile fine sportiva, erano pronti a raccontarne la ferale cronaca. Il triste epitaffio. Basterebbe del resto ricordare quello che scrisse il grande Gianni Brera, su "La Repubblica", alla vigilia dell'incontro: «In verità vi dico che martedì faremo le valigie, e torneremo a casa ragionevolmente appagati». Invece, come tutti sanno, andò in modo diverso; perché l'Italia vinse, al termine di una sfida memorabile, per 3 a 2.

Quegli emozionanti novanta minuti sono rimasti scolpiti nell'immaginario collettivo, non solo italiano; perché diedero vita ad una delle pagine più memorabili della storia del calcio. Tanto è vero che il giornalista britannico Glenn Levy, della rivista "Time", affermò – probabilmente a ragione – che quella «non è stata solo la più bella partita mai giocata in un campionato del mondo, è stata probabilmente la più bella partita di tutti i tempi». Ricordo dove ero, quel pomeriggio, e con chi la vidi.

Con alcuni dei miei compagni di scuola. Avevo l'età perfetta per gustarmela appieno, quella sfida: e cioè l'incosciente spensieratezza dei miei diciotto anni. E rammento ancora oggi le fortissime sensazioni che provai: la tensione del momento, l'euforia dei nostri sorprendenti vantaggi, lo scoramento per i pareggi avversari, la gioia incontrollabile del terzo gol, la paura di essere raggiunti, il cuore in gola nel momento della parata di Zoff sulla linea, all'ultimo minuto, il sapore del trionfo al triplice fischio finale; e poi la festa, per le strade, assieme a migliaia di persone incredule. Momenti indimenticabili.

Lo scrittore romano Piero Trellini, che nel luglio dell'82 aveva soltanto dodici anni, ha deciso di raccontare sin nei dettagli la storia di quella sfida. E, per farlo, ha reso omaggio ad uno dei crocevia emotivi più importanti della sua esistenza dando alle stampe, per Mondadori, "La partita – Il romanzo di Italia-Brasile" (614 pagine). Nella premessa del libro, l'autore, non solo descrive quello che era il contesto sociale, politico ed economico del nostro Paese dell'epoca («A quei tempi avevamo un disperato bisogno di eroi... era l'epoca di "Guerre stellari", di "Rocky", di "Superman" e di "Goldrake".

In un'Italia stretta tra un "Sabato italiano" e una "Domenica bestiale", nella luce del pallone ci si abbandonava con disperata euforia, perché nel resto della settimana era buio pesto. Inflazione, intrighi, logge, stragi, speculazioni. Il colore dello stivale era grigio»), ma spiega anche le ragioni che enfatizzarono quell'incredibile impresa; notando infatti argutamente che quell'incontro fu «talmente calibrato da possedere la medesima struttura in cinque atti di una pellicola cinematografica: evento scatenante (1-0), complicazioni progressive (1-1 e 2-1), crisi (2-2), climax (3-2), risoluzione (il gol annullato, la parata finale, l'epilogo)», e ciò perché «il calcio è una metafora. Semplifica i concetti che strutturano la nostra esistenza: giustizia, fatalità, ragione, istinto, compassione, furbizia, riconoscenza, moralità. Astrazioni che trovano piena espressione nel momento di una partita...».

Per parlare di quell'epica sfida Trellini parte da lontano, ricostruendo con impressionante accuratezza le storie che erano di contorno rispetto alle vite dei suoi numerosi protagonisti. Alcune, peraltro, dolorosissime. Basterebbe infatti pensare all'arbitro di quella partita, l'israeliano Abraham Klein, che aveva perso il figlio militare, caduto in guerra, in Libano, appena una settimana prima... Ma l'autore si sofferma anche su aspetti di carattere più squisitamente tecnico. Ad esempio quando ricorda che il segreto del successo di Enzo Bearzot (il commissario tecnico della Nazionale), fu quello di creare un gruppo di giocatori affiatati, dotati di duttili caratteristiche umane e professionali, che potessero essere in grado di dare corpo alla nuova idea di football che lui aveva in mente: la cosiddetta "zona mista" (la quale altro non era se non un'intelligente commistione tra la pragmatica efficienza del "catenaccio" all'italiana e l'estetica del "calcio totale", soluzione tattica che era stata mirabilmente sublimata, negli anni settanta, dall'Olanda di Cruijff). Eppure in molti si erano mostrati piuttosto scettici sul suo operato.

Non solo verso questa innovativa visione di gioco (tanto è vero che Enrico Ameri, pochi minuti prima di iniziare la sua radiocronaca della partita, sentenziò: «Come tecnico è sempre stato un modesto, come selezionatore della nostra Nazionale lo giudico uno sprovveduto, un avventurato»), ma – anche e soprattutto – sulla discussa scelta di puntare su un ragazzo che era appena uscito con le ossa rotte dall'ingiusta accusa di essere implicato nel cosiddetto "calcioscommesse", che aveva disputato la sua prima partita dopo ben due anni di squalifica soltanto il 2 maggio di quell'anno, e che era palesemente sfiduciato e fuori condizione: Paolo Rossi.

Ricorda infatti Trellini che uno dei più importanti giornalisti sportivi italiani, Giorgio Tosatti, si era pubblicamente domandato, riferendosi a Bearzot, «quali conoscenze potesse avere di sport una persona che si ostina a portare un giocatore in quelle condizioni», e cioè uno «con tre menischi rotti, cinque chili in meno e nessuna possibilità di ritornare quello che era stato in Argentina». Subito dopo il trionfo, però, in molti furono costretti ad ammettere di essersi sbagliati. Oreste Del Buono, ad esempio, nel suo editoriale di quel post partita, infatti, scrisse: «Il commissario tecnico non ha sbagliato un nome, una marcatura, una mossa. Mi rendo conto che sto scrivendo fregnacce. Smetto, è la notte di un vero trionfo nazionale. In Italia, mi dicono, sta avvenendo qualcosa che rassomiglia a tutte le feste nazionali messe insieme, il 24 maggio, il 28 ottobre, il 25 luglio, il 25 aprile e così via, poi domani ci sveglieremo da questo sogno vero davanti a una realtà, anzi ad un'irrealtà di merda. Non abbiamo una lira. Pazienza. Facciamo durare questa notte. Non dovrebbe passare mai».

Lo stesso Tosatti ritenne opportuno fare pubblicamente "mea culpa", scrivendo infatti del grande ct friulano: «Leviamoci il cappello e rivolgiamogli doverose scuse. Perderà amichevoli, commetterà errori, ma al momento che conta la sua squadra fiorisce, la sua testardaggine si dimostra saggia, le sue scelte esatte, le sue tattiche azzeccate. Sarebbe vile non dirgli che aveva ragione». Ed in effetti, osserva giustamente Trellini, quell'incontro leggendario, oltre ad essere «considerato lo spartiacque tra due fasi del football», è convenzionalmente passato alla storia «anche come un'allegoria, il paradigma del confronto tra due correnti opposte: il calcio spettacolo e quello organizzato». Il fuoriclasse brasiliano Zico, diverso tempo dopo, espresse la sua opinione (che francamente ci appare un po' troppo severa...) su quella sfida, tanto è vero che disse: «Italia-Brasile è stata la partita che ha cambiato per sempre la storia del calcio. Se l'avessimo vinta sarebbe stato differente. Dopo di allora, invece, abbiamo cominciato a mettere le basi per un calcio nel quale bisogna conseguire il risultato a qualsiasi costo, un calcio fondato sulla distruzione del gioco avversario e sul fallo sistematico. Quella sconfitta non fu positiva per il mondo del pallone».

Tuttavia il campione carioca ammise anche che «se quel giorno avessimo segnato cinque reti, l'Italia ne avrebbe segnate sei, perché trovavano sempre il modo di capitalizzare i nostri errori». Anche Paolo Rossi (che fu il protagonista assoluto di quell'epica vittoria perché quel pomeriggio, al Sarrià di Barcellona, segnò una memorabile tripletta), una volta ebbe a dire: «Quel 3 a 2 fu una lezione per la quale il Brasile ci dovrebbe ringraziare e dare un premio. Una sconfitta dalla quale impararono molto. Soprattutto a giocare più coperti. Tanto è vero che poi hanno vinto altre due edizioni del Mondiale. Da allora il loro approccio è cambiato, è diventato più guardingo, si sono europeizzati».

L'indimenticabile "Pablito" (prematuramente scomparso il 9 dicembre del 2020), dimostrando un'intelligenza, una lucidità ed una sensibilità fuori dal comune, ricordava quegli incredibili momenti in questo modo: «Guardavo la folla, i compagni, e dentro sentivo un fondo di amarezza. Adesso dovete fermare il tempo, adesso, mi dicevo. Non avrei più vissuto un momento del genere. Mai più in tutta la mia vita. E me lo sentivo scivolare via. Ecco, era già finito...». Egli aveva perfettamente compreso l'epicità di quell'impresa sportiva, e l'unicità delle emozioni che quella partita, e quella vittoria, fu in grado di regalare a milioni di persone. Me compreso. A ricordarmelo per l'ennesima volta ci ha pensato la persona con la quale vidi la finale di quel Mondiale, con cui ci siamo regalati, reciprocamente, il libro di Trellini.

E lo ha fatto soprattutto con la sua appassionata dedica: «All'amico mio, che sa, come me, quale meravigliosa felicità collettiva vivemmo insieme». Felicità che oggi, anche a quarant'anni di distanza, è ancora assai viva. Confermando di fatto quello che disse il famoso scrittore peruviano Mario Vargas Llosa, prevedendo correttamente l'impatto che quella partita avrebbe avuto sulla memoria della gente: «Sarà una festa da ricordare, della quale parleranno quando saranno trascorsi molti anni, e i suoi principali protagonisti saranno solo nomi legati alla mitologia del calcio». E infatti, con malcelata commozione, ne parliamo volentieri ancora oggi.

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