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La testimonianza

Volontari, il cuore oltre l’ostacolo

I due medici di Colfelice in Kenia continuano a raccontare il loro impegno anche nei villaggi più remoti. Nessun orario di lavoro, pazienti da visitare percorrendo spazi infiniti. E la consapevolezza di non poter salvare tutti

Volontari, il cuore oltre l’ostacolo

Silvia Rabotti e Marco Frasca di Colfelice continuano a emozionare tutti

Continua ad appassionare tutto il Cassinate la storia dei due giovani medici del posto, Marco Frasca e Silvia Rabotti, che dopo aver lavorato in importanti ospedali italiani ed anche a Londra, hanno fatto una scelta importante e coraggiosa della loro vita, trasferendosi in Kenia, nella località di Ongata Rongai, del distretto Kajiado, a circa un ora da Nairobi. Una vera e propria missione la loro, ogni giorno a cercare di alleviare le sofferenze della gente del territorio, a volte anche emarginata e con forti difficoltà economiche anche per curarsi, perché le cure primarie per i più deboli rappresentano un lusso.

Il dottor Marco e la dottoressa Silvia nell’ospedale dove lavorano hanno anche dato vita all’associazione “We ’re all’Africa” proprio per dare vita a progetti importanti per sostenere chiunque abbia bisogno di un supporto di prima necessità. I due professionisti, originari di Colfelce, uniti anche nella vita, genitori di due bambine in tenera età, sono molto attivi sui social per far conoscere attraverso il web a chi vive in un mondo migliore la dura realtà di chi invece affronta le difficoltà quotidiane del paese africano della terra rossa. Il dottor Marco, con garbo e gentilezza, sempre pronto con la consorte a gettare il cuore oltre l’ostacolo, ha risposto nuovamente alle nostre domande.

Dottore, quante ore lavorate al giorno?
«Ovviamente noi non abbiamo un orario di lavoro, la giornata inizia presto sempre con la preghiera di gruppo e poi si iniziano le attività. Ogni giorno in missione è sempre diverso dall’altro per cui non si sa mai quando finisce il lavoro, perché oltre ai pazienti c’è anche la gestione dell’ospedale che comporta molti impegni e responsabilità».

Quali sono le difficoltà che incontrate per raggiungere i villaggi dove andate a curare le persone?
«Quando andiamo nei villaggi più remoti per le attività di clinica mobile ci spostiamo dal nostro ospedale e viaggiamo, anche per un paio d’ore, per raggiungere le comunità più bisognose. Le strade sono spesso dissestate e questo costituisce un problema, soprattutto durante la stagione delle piogge. Ma con determinazione siamo sempre riusciti a raggiungere tutti».

A volte vi trovate davanti a bambini o persone che vengono a mancare, vi sentite con le mani legate per non essere riusciti a fare in modo che sopravvivessero?
«Quando si sceglie di partire in missione, la prima cosa che si deve mettere in conto è accettare di non poter salvare tutti. Le risorse sono limitate, gli strumenti mancano quasi sempre e questo porta spesso a perdere pazienti senza poter fare nulla. Li vediamo spegnersi e non possiamo fare altro che accompagnarli con la preghiera e consolare noi stessi sapendo di aver fatto tutto quello che era nelle nostre possibilità».

Come vi adoperate per confortare una mamma che perde il suo bambino?
«Una mamma che perde la sua creatura rappresenta sempre una tragedia. Ma il rapporto che gli africani hanno con la morte è del tutto particolare. La morte fa parte della vita e così, come la nascita, anche la morte va celebrata. Il dolore rimane immutato ma il modo di affrontarlo cambia le cose. Quando a morire è un bambino quello che possiamo fare è dare a quella madre tanto supporto, esserci come comunità e accompagnarlo, come qui vuole la tradizione, con una grande festa per celebrare la sua pur breve vita».

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