Spazio satira
Frosinone
21.07.2025 - 17:49
Il jazz. Un genere amato, odiato, osannato e bistrattato, accolto nella storia con sentimenti contrastanti. Per parlare del jazz, cercare di comprenderlo e descriverlo, probabilmente non basterebbero tutte le pagine di questo giornale. Ma è possibile farsene un’idea leggendo le parole di chi il jazz lo suona, lo racconta e lo trasmette. Ai microfoni di Zapping, il maestro Paolo Tombolesi, pianista jazz, compositore e arrangiatore, nonché coordinatore dei corsi jazz del conservatorio Licinio Refice e da trent’anni direttore artistico di Acuto jazz, ha raccontato il suo rapporto con questo genere e il ruolo chiave che il conservatorio di Frosinone gioca nel panorama jazzistico italiano.
Partiamo dal conservatorio. La cattedra di musica jazz del Licinio Refice è stata la prima in Italia, voluta dal direttore Daniele Paris e dal maestro Gerardo Iacoucci, che tra l’altro è stato tuo insegnante. Che ricordo ha dei suoi studi al conservatorio di Frosinone?
«Sono stati anni molto intensi, molto belli. Io sono originario di Acuto e ho iniziato a frequentare il conservatorio a quindici/sedici anni per studiare pianoforte classico. Poi suonavo rock con gli amici. Ma proprio al conservatorio di Frosinone ho scoperto il jazz, un genere che si immagina di incontrare fuori dal circuito accademico. Invece, a Frosinone, c’era già questo corso innovativo, attivo dal 1976, che ha fatto da apripista in Italia. Tra poco celebreremo il 50° anniversario, sicuramente con eventi straordinari».
Quando ha deciso di studiare jazz?
«Frequentavo lezioni di storia della musica al grattacielo di Frosinone. La fermata dell’autobus era lì vicino, quindi, nell’attesa, quando avevo tempo mi affacciavo all’auditorium, che era la sede dei corsi jazz. E lì un giorno ho sentito suonare un’orchestra jazz e sono rimasto folgorato. Dopo qualche settimana che andavo a spiare le lezioni chiesi a Iacoucci, timidamente, come si facesse a entrare in questo corso. Mi disse di tornare a ottobre, per cominciare a vedere come funzionasse e da lì ho proseguito».
Ha conseguito una brillante carriera e, da studente, è diventato docente. Come si sono sviluppati negli anni i corsi jazz e come sono strutturati oggi?
«Il primo ingresso del jazz in un conservatorio fu a Roma all’inizio degli anni Settanta; ma non c’era un’autorizzazione ministeriale e fu un’esperienza che durò poco tempo. Quando nel 1973 il conservatorio di Frosinone iniziò ufficialmente la sua vita autonoma, il fondatore e direttore Daniele Paris chiese subito al ministero l’autorizzazione per avere una serie di corsi che nei conservatori tradizionali non c’erano, come chitarra, sassofono, strumenti a percussione dell’orchestra sinfonica ma anche altri corsi innovativi come musica elettronica, nuova didattica della composizione e, appunto, il corso di jazz. Nel 1976, quindi, partì il corso, per il quale venne incaricato Gerardo Iacoucci. All’inizio non rilasciava un diploma vero e proprio. Solo negli anni Novanta divenne un corso ordinamentale e, dopo la riforma del 1999, il diploma divenne titolo accademico a tutti gli effetti e il corso, che fino alla fine degli anni Novanta era tenuto da un solo docente che aveva dieci, dodici allievi al massimo e che per lo più studiavano composizione e arrangiamento, ha cominciato a svilupparsi in un vero e proprio dipartimento».
Oggi come è strutturato?
«Abbiamo due cattedre di chitarra jazz, due di batteria e percussioni jazz, due di pianoforte jazz, una di canto jazz, sassofono. Insomma, abbiamo tutti gli strumenti più le materie complementari, come composizione jazz, che insegno io, e tecniche di improvvisazione musicale».
Nella sua ricchissima biografia compaiono molti nomi noti, c'è qualche aneddoto o qualche incontro in particolare che le è rimasto nel cuore o che in qualche modo ha segnato il suo percorso?
«Ne ho tanti, ma ne ricordo due in particolare. Il primo riguarda il gemellaggio tra Isola del Liri e New Orleans, dove tra l’altro Gerardo Iacoucci ha la cittadinanza onoraria. Negli anni Novanta, per questo gemellaggio fu organizzato un concerto con il clarinettista e compositore Alvin Batiste, che scrisse una suite dedicata a Isola del Liri, con elementi di jazz moderno e anche della tradizione del gospel e dello spiritual. C’era un primo violino di un quartetto di archi, con gli elementi di un coro gospel di New Orleans e poi c’era una sezione ritmica locale, con il batterista Giancarlo Guidoni e Gianluca Renzi al contrabbasso, e degli archi locali. A un certo punto tutta la piazza ha cominciato a battere le mani, cantava, ballava... Ecco, questa è stata un’esperienza molto significativa dal punto di vista emotivo. L’altro ricordo riguarda la collaborazione, durata molti anni, almeno venti, con il trombonista Marcello Rosa. Un personaggio storico del jazz e per me importante perché oltre che musicista, compositore e arrangiatore è stato un grande divulgatore. Ricordo che da bambino lo guardavo in televisione, ricordo la sua voce alla radio, per cui quando l’ho conosciuto e mi ha invitato a suonare con lui per me è stata una cosa importante».
Tra le altre cose, da quasi trent’anni è anche direttore artistico di Acuto Jazz. Qual è il segreto di questo format di successo?
«Non so se c’è un vero segreto. Ad Acuto non c’è una comunità jazzistica strutturata. Tutto è nato nel 1996 grazie ad alcuni giovani consiglieri comunali che ebbero l’idea di dare vita a una rassegna dedicata al jazz. Mi chiesero di aiutarli e partì la prima edizione. Da lì siamo andati avanti fino a oggi. Il Comune ha sempre voluto portare avanti l’iniziativa, che ormai è diventata una rassegna storica. Ormai la gente lo chiede, si è creato uno zoccolo duro di fedeli appassionati che considerano questa un’iniziativa tradizionale e un appuntamento ormai è imperdibile. Forse ha funzionato perché ho sempre cercato di offrire una programmazione varia, non solo jazz. I generi musicali, e anche queste parole jazz, rock, blues, country forse avevano un senso preciso quando esistevano i dischi in vinile, merce fisica che andava gestita. Le case discografiche dovevano avere il magazzino, i negozi dovevano tenere gli stock dei dischi da qualche parte, quindi c’era la necessità di classificare la musica perché era anche una merce fisica. In questi ultimi anni non è più così. E poi le musiche evolvono, cambiano. Quindi oggi con questa parola jazz puoi indicare moltissime cose e molto diverse. Io ho cercato di rappresentare questa diversità e questa varietà. E forse è anche il motivo per cui è piaciuto negli anni al nostro pubblico».
Dalla New Orleans dei primi del Novecento, come ha sottolineato, questa musica si è evoluta, è cambiata. Ma, tra alti e bassi, continua ad avere un certo fermento ed è un genere che resiste al tempo e alle crisi. Perché?
«Probabilmente proprio per il fatto di non essere veramente un genere. Ormai parliamo di una musica per la quale la definizione è apparsa per la prima volta su un disco nel 1917. Quindi abbiamo superato ampiamente i cento anni e quella che era la musica del 1917 già era un’altra cosa negli anni 20 e un’altra cosa ancora negli anni 30, quando la gente ballava al suono delle grandi orchestre swing. Poi nel dopoguerra comincia a non essere più una musica da ballo ed entra nelle sale da concerto. Quindi cambia il pubblico. E anche la stessa identità dei musicisti, che si riconoscono in qualche modo in questa parola, è cambiata».
Anche la stessa parola “jazz” ha una storia affascinante sia per quanto riguarda la sua origine sia per la pronuncia. Secondo la sua esperienza, qual è la corretta pronuncia e come si è evoluto nel tempo il significato stesso di questo termine?
«Quando sono stato negli Stati Uniti ero molto preoccupato dalla pronuncia da utilizzare e ho scoperto che in America lo pronunciavano in tutti i modi, ognuno come voleva. Anche perché l’origine di questa parola continua a essere abbastanza ignota e controversa. Tra l’altro per tanti musicisti americani, negli anni Cinquanta e Sessanta, la parola jazz era considerata una parola da bandire. Alcuni personaggi, come Max Roach, che è stato uno dei più grandi batteristi della storia di questo genere, non voleva sentire la parola jazz, che per lui aveva anche un connotato razzista».
Torniamo all’integrazione con altri generi...
«La cultura di questo mondo è una cultura fatta da musicisti avidi di altre musiche e di stimoli sempre interessati a cambiare, a innovare. Nasce dalla comunità afroamericana, che oltre a essere forte della propria eredità, delle tradizioni africane, in realtà è anche entrata in contatto con la cultura musicale europea e ha elaborato in maniera originale elementi di musiche diverse. Ma poi nel jazz entrano anche le culture di tante altre comunità presenti negli Stati Uniti. C’entra anche in qualche modo la cultura italiana. Basti pensare che Louis Armstrong, che è stato uno dei primi grandi personaggi della storia del jazz, era un grande appassionato di canto lirico, dell’opera italiana. Tant’è che gli studiosi hanno trovato nelle sue improvvisazioni citazioni da Bellini, Donizzetti, Verdi. Quindi tutte le culture musicali che in qualche modo hanno toccato i musicisti di jazz sono state in qualche modo usate e sono entrate in questo linguaggio. Oggi, oltretutto, con il fatto che la musica è diventata tra virgolette liquida, quindi distribuita non più in un supporto fisico e il jazz, come modo di vivere la musica, è naturalmente portato a rapportarsi costantemente con tutte le musiche e tutti gli stimoli».
Quindi c'è una contaminazione continua?
«Non la definirei nemmeno contaminazione, perché questo termine fa pensare a una musica pura che poi si contamina con altre. Il jazz non è mai stata una musica pura. Ma forse non esiste una musica pura. Tutte le musiche sono una continua evoluzione che avviene nel rapporto dei musicisti con altri musicisti e con altre culture. Oggi questo rapporto è possibile più che in passato. E quindi la musica è un fermento continuo. Potremmo anche dire che la musica, e il jazz, oggi sono un fenomeno collettivo più che in passato. Oggi il grande eroe solitario, il grande musicista che da solo inventa uno stile, lo cambia, è più improbabile. Perché se un musicista fa due note originali, immediatamente ci sono tanti giovani che lo ascoltano, perché lo sentono in rete, perché c'è un video, perché il concerto è online. E cominciano a lavorare anche loro velocemente in quella direzione».
Anche nell’ambito del conservatorio, quindi, c’è integrazione fra i generi?
«Sì, al conservatorio di Frosinone sono attivi anche i corsi di popular music, che attirano studenti interessati a un ampio ventaglio di generi: pop, rock, blues, canzone d’autore, tradizione napoletana, musica da ballo e molto altro. In realtà, già la definizione stessa di “popular music” è complessa, perché racchiude un universo musicale molto variegato. La mia materia, poi, “Tecnica di improvvisazione musicale” è obbligatoria sia per gli studenti di jazz sia per quelli di popular. E spesso, osservando le classi, è difficile distinguere uno studente jazz da uno pop perché gli interessi e i linguaggi sono sempre più condivisi. Al conservatorio di Frosinone abbiamo fatto diversi concerti con un’orchestra pop, che in effetti è formata da musicisti dei corsi pop, musicisti dei corsi di jazz e tanti musicisti classici, poi ci sono archi, violoncelli, violini, viole, tutti insieme. Insomma, c’è molta trasversalità. Questo è un conservatorio molto grande, tra i più grandi d’Italia, che ha corsi che rientrano in tutti gli ambiti musicali, e quindi è possibile far collaborare studenti e docenti che vengono da ambiti musicali apparentemente lontani».
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