Spazio satira
L'intervista
06.04.2021 - 23:00
Luca Cappella
L'attuale pandemia, pur limitando la possibilità di muoverci fisicamente, ci ha regalato maggior tempo per viaggiare virtualmente su internet e così, tra un link e l'altro, si possono fare incontri interessanti. Luca Cappella, in arte "strAw", è un musicista nato ad Alatri nel 1976, songwriter, chitarrista e cantante del duo alternative-rock I-Taki Maki. Attualmente risiede a Berlino.
Quando è nata la passione per la musica?
«Grazie a un incontro del tutto casuale conuna musicassettadei Clashtrovata incasa negli anni 80.
La prima traccia a partire fu London Calling. Ne fui travolto e capii quale fosse la musica vera».
Quali sono i suoi studi?
«Sono autodidatta. La prima chitarra la comprai a Natale del '92, insieme al mitico libro "Chitarristi in 24 ore". Il giorno dopo iniziai a cimentarmi con i primi accordi. Un disastro! Mi scoraggiai e lasciai per cinque lunghi mesi. Solo l'anno successivo presi a esercitarmi sul serio e non smisi più».
Perché lasciare l'Italia?
«Avevo bisogno di cambiare aria, di sperimentarmi in un luogo diverso da quello a cui ero abituato, per capire se fossero i miei sogni a essere irrealizzabili o se, piuttosto, avessero bisogno di un terreno più fertile in cui crescere. Non è stato facile, ma i sacrifici e la costanza mi hanno dato infine una risposta».
Come mai proprio Berlino?
«Mi sono innamorato di Berlino nel 2007, in vacanza.
Tutto era arte, musica, cultura: in questo Berlino si distingue positivamente dalle altre città del Paese, come riconoscono anche i nostri amici tedeschi che non vivono nella capitale. Inoltre, il costo della vita è molto basso, al contrario della quasi totalità delle grandi città europee che non sono accessibili per chi vuole vivere d'arte!».
Come si sviluppa il sodalizio artistico con la sua compagna, Maria Mazzocchia, in arte Mimmi? «Siamo identici nel prendere sul serio il progetto che per entrambi è importante e merita il massimo impegno e professionalità. Siamo diversi a volte nei gusti, che portano a scelte artistiche divergenti. Il trucco è trovare il compromesso tra queste caratteristiche e farne un'opportunità».
La vostra musica, com'è scritto sul sito ufficiale, «ha influenze provenienti dal rock alternativo, lo slow-core e il post-punk, caratterizzate da arrangiamenti minimalisti, voci calde, suono emozionale e profondo»...
«Con il tempo il nostro genere è mutato profondamente: all'inizio avevamo sonorità più pesanti e cantavamo in italiano, io ero la voce principale e Mimmi entrava solo nei cori. Successivamente abbiamo scelto di cantare insieme e in inglese. Questo ci ha portati a navigare in nuove acque e a cercare di migliorarci puntando sulle armonizzazioni e su suoni più morbidi».
Chi ascolta la musica de I-Taki Maki?
«Il target medio ai nostri concerti varia dai venticinquenni agli over 60. Ai giovanissimi sembra bastare Spotify, dove gli algoritmi suggeriscono cosa ascoltare, facendo soccombere la ricerca e il vero ascolto della musica, come su un treno in corsa a bordo del quale non si è in grado di scegliere a che stazione scendere».
Quali sono le differenze fra il mercato della musica in Germania e quello dell'Italia?
«Nell'era della scomparsa delle specificità culturali, il mercato è abbastanza standardizzato. Come in Italia, anche in Germania puoi trovare lo pseudo rapper che scimmiotta i colleghi americani. L'unica differenza è la lingua, ma il risultato è lo stesso».
Che significa essere musicista a tempo pieno? «Essere musicisti per noi significa vivere la musica in tutte le sue sfaccettature: componendola, certo, ed esibendoci, ma significa anche viaggiare e conoscere gente, curare il booking, organizzare i tour, produrre i nostri dischi, seguendo tutte le fasi dalle riprese in studio al mastering, fino alla grafica delle copertine e persino la regia dei video. Abbiamo deciso di fare tutto da soli e siamo fieri di questa scelta, anche se è molto faticosa».
Quanto ha influito il Covid sull'attività de I-Taki Maki?
«Moltissimo. Siamo passati da una media di quaranta concerti l'anno a due. Il governo ci ha sostenuti lo scorso anno tramite un contributo riservato ai liberi professionisti, segno che qui la cultura è importante e il mestiere di musicista non lo trovi nel menù a tendina alla voce "altro". Certo, bisogna dimostrare di svolgere quella professione per vedersi riconosciuti i diritti, ma noi abbiamo la partita Iva, l'assicurazione sanitaria per gli artisti, siamo iscritti alla GEMA (la corrispondente tedesca della nostra S.I.A.E., ndr) e quindi non abbiamo avuto problemi».
Avete in programma di tornare in Italia per qualche spettacolo?
«Ci piacerebbe molto, ma ora è difficile fare una previsione».
Che cosa le manca della Ciociaria?
«Mi mancano gli affetti, i genitori, gli amici più cari, il dialetto, la lingua, il cibo genuino! Resterà sempre la mia terra, quella in cui saprò di poter tornare qualora il resto del mondo non mi volesse più, ma quella da cui sono dovuto scappare per cercare quello che lì non avrei potuto trovare».
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