Spazio satira
L'intervista
29.06.2025 - 18:38
Claudio Pagliara non ha certo bisogno di presentazioni. Volto noto della Rai, ci ha raccontato quanto accadesse a tanti chilometri da noi: sedi diverse, abitudini e culture diverse, identici la sua professionalità e il suo impeccabile modo di informarci.
Allora, innanzitutto che effetto fa tornare a Frosinone?
«Frosinone è da sempre casa mia. Continua ad esserlo, non potrebbe essere altrimenti».
L’ultima fatica da saggista si chiama “L’imperatore”. L’imperatore è Trump. Ci puoi spiegare perché?
«Perché Trump è un imperatore? Perché dalla cerimonia inaugurale, per poi passare ai decreti esecutivi e ancora all’invio dell’esercito in California, lascia chiaramente immaginare che voglia espandere i poteri costituzionali di un presidente».
Democrazia americana in pericolo?
«No, quella resta salda, perché ci sono il potere legislativo e il potere giudiziario pronti a cercare di contenerlo, ma lui come indole avrebbe in tutto quella di un imperatore».
Un imperatore legittimato però da settantasette milioni di voti, quindi una legittimazione popolare molto forte...
«Non c’è dubbio, non solo una legittimazione, ma anche un vero e proprio entusiasmo di questo popolo, trascinato dall’acronimo MAGA. Ho seguito tanti leader politici in varie parti del mondo, molte campagne elettorali, ma la passione che anima il popolo che vota Trump è del tutto eccezionale».
La vittoria di Trump vuol dire che oggi contano più i social rispetto al New York Times, alla Cnn, alla Cbs?
«Certamente. I podcast ad esempio sono una forma che ha un’influenza enorme sul pubblico. Trump ha speso durante la campagna elettorale in una sola sessione ben sei ore con un podcaster che è il più famoso degli Stati Uniti, che ha qualcosa come forse duecento milioni di follower e certamente è molto più importante di un articolo sul New York Times».
Facciamo un salto indietro di parecchi anni, piazza Santa Maria: Claudio Pagliara, ma anche Luciano Fontana. È una piazza che ha dato i natali a gente importante. Che ricordo hai di quegli anni?
«Inevitabilmente li ricordo con un po’ di nostalgia, mi piacerebbe tornare indietro. Eravamo giovani e belli. Aspettavamo tutti i giorni i rintocchi del campanile e alle 23.45 c’era una vera apoteosi dei rintocchi, erano undici più i tre dei quarti, diversi di tono».
Torniamo a quei giorni frusinati e a Giacomo Pagliara, il tuo papà. Per tutti era Giacomino, un riferimento per i bambini del centro storico. Aveva un negozio che sarebbe riduttivo definire di giocattoli. Cosa ha rappresentato per te la tua famiglia?
«I miei genitori vivono dentro di me, naturalmente. Ricordo il negozio e la mia attesa fremente, da bimbo, del rappresentante che a maggio portava i giocattoli per la Befana. Allora non si facevano regali per Natale, era la Befana il giorno deputato. Quando arrivava il rappresentante io attendevo sempre il momento in cui dalla sua valigia usciva un regalo per me».
Un papà che ha seguito con amore la tua carriera giornalistica, il tuo primo tifoso?
«Mio padre ha vissuto gli ultimi anni incollato alla tv. Mi ha seguito forse anche in maniera ossessiva, non c’era verso di scollarlo».
Inflessibile, a suo modo. Ci spieghi perché?
«Sì, quando tornavo da Gerusalemme o da Parigi e restavo con lui a Frosinone più dei soliti tre giorni, al quarto cominciava a dirmi che dovevo andare a lavorare, perché altrimenti poi in Rai cosa dicono? Questo era mio padre».
Ci racconti come avviene la svolta lavorativa? Sappiamo che c’è un esperimento fatto da editori e sindacato che cercano all’inizio degli anni 80 una strada diversa da quella nepotistica per l’accesso alla professione. Cosa accade?
«Mettono in palio settantacinque borse di studio, con liste progressivamente più corte. Alla fine faccio l’esame e vinco una di queste settantacinque borse di studio».
Immagino che avrai festeggiato?
«Sì, ma con moderazione e perfino un po’ impaurito, perché non avevo fatto niente che potesse essere direttamente riconducibile al giornalismo. Mi sono detto, vediamo come va. C’era possibilità di stare per un anno in due redazioni giornalistiche e poi una delle due poteva assumerti o meno. Andò bene, ed eccomi qua».
Sei stato osservatore privilegiato e attento di quel che accadeva a Parigi, Gerusalemme e Pechino. Oggi dal Medio Oriente immagini truculente di un conflitto che non conosce soste. Cosa ne pensi?
«Parliamo di una tragedia pesante e anche sui social ormai passano le immagini più crude. Io ai tempi della guerra in Bosnia non ero inviato, ma caporedattore esteri a Roma. Arrivavano immagini terrificanti, come quelle della strage al mercato di Sarajevo. Essendoci ancora una mediazione giornalistica, si prendeva la decisione di non trasmetterle, perché non avrebbero aggiunto niente all’orrore di altre immagini e al bilancio dei morti. Oggi non è più così e le immagini più crude diventano virali nei social, ma possono non esprimere la verità, perché spesso cambiano senso a seconda delle angolazioni».
Da cosa scaturisce questa tensione infinita?
«Devo tornare al 2005. Ci sono colonie ebraiche nella striscia di Gaza. Ariel Sharon, primo ministro israeliano, decide di ritirare le colonie e i soldati che erano a protezione delle stesse. Di fatto consegna Gaza all’autorità palestinese. Seguono anni di guerra civile tra Fatah, il partito più laico, già preso in mano da Boumazen, e Hamas. Quella guerra finisce con la vittoria di Hamas e da allora per sedici anni, invece di costruire fabbriche, cinema e progetti di sviluppo, Hamas ha costruito centinaia di chilometri di tunnel e ammassato decine di migliaia di missili con l’obiettivo di distruggere lo stato di Israele. Ne è scaturito ciò che stiamo vedendo».
Veniamo alla Cina e al braccio di ferro con gli Stati Uniti. Tu hai scritto un libro sulle possibilità di un conflitto tra questi due colossi. La Cina quindi non vuole solo la supremazia commerciale?
«La Cina è un’autocrazia che sotto i miei occhi ha fatto un balzo tecnologico gigantesco. Io sono arrivato esattamente negli anni di Xi Jinping, dal 2013 al 2019. La Cina si è trasformata a velocità supersonica. C’erano telecamere di sorveglianza ovunque e laddove potevi trovare notizie non proprio piacevoli per il regime interveniva immediatamente una totale censura, il controllo sulle persone è massimo. Un economista cinese tre mesi fa si è permesso di dire che il tasso di disoccupazione giovanile è il doppio di quello che risulta dalle stime ufficiali. Ebbene, di lui non si hanno più notizie».
La concezione di Trump che i buoni rapporti commerciali possano essere la chiave della politica estera non è un pochino minimalista?
«Trump pensa che sia necessario imporre alla Cina un cambiamento di rotta dal punto di vista commerciale. Questo è un obiettivo che dovrebbe essere perseguito anche da tutti i Paesi europei, compresa l’Italia».
Cosa si può fare in concreto?
«Non è che non si possano fare affari con la Cina. Si possono fare, sapendo però tutti i rischi che comportano, nel contesto di un mercato che ancora adesso non è affatto aperto. Dobbiamo fare attenzione alla Cina che ha scelto dieci settori tecnologici nel 2015, progetto 2025, quindi l’anno in corso, per avere supremazia in tutti e dieci i settori. Ora certamente ce l’ha sull’auto elettrica e inoltre ha finanziato ricerca e sviluppo con soldi pubblici e aziende di Stato. Noi ci troviamo con aziende private senza soldi pubblici a dover competere in un mercato che non è più di fatto un libero mercato. Quindi i dazi sull’auto elettrica sono necessari. Se noi assistiamo impassibili a ciò che la Cina sta facendo, dopo aver visto distrutta tutta la filiera del tessile, rischiamo di perdere anche quella metalmeccanica e parliamo di milioni di posti di lavoro in Europa e decine o forse centinaia di migliaia in Italia».
Quindi l’appello di Trump è condivisibile?
«Trump sostiene che la Cina debba smettere di finanziare le sue aziende. C’è necessità che apra i suoi mercati e che agisca come una superpotenza economica in un mercato più liberale. Questo obiettivo deve essere condiviso anche dalle altre economie di mercato, perché ci sono in gioco milioni di posti di lavoro».
Prima ipotizzata, poi invocata, ora è diventata reale la presenza dei militari a Los Angeles. Lo avresti mai immaginato?
«È già successo negli Stati Uniti, non è la prima volta. Esistono delle leggi che possono essere invocate quando degli agenti federali sono minacciati. Trump sa perché ha scelto la linea dura sull’immigrazione, perché è su quello che vince. Lui ha vinto le elezioni perché ha fatto una campagna promettendo, come ricorderete, la più grande deportazione di massa della storia degli Stati Uniti, usando anche un linguaggio molto crudo per descrivere i migranti, che è chiaramente non vero. Però certamente c’è da fare una riflessione. I democratici nei primi due anni di governo Biden hanno effettivamente lasciato entrare più di dieci milioni di migranti illegali senza alcun controllo».
Con quali risultati?
«Per il sistema dell’immigrazione americano, che tutti in maniera bipartisan riconoscono che andrebbe riformato radicalmente, questi migranti che hanno chiesto asilo vedranno probabilmente le loro cause esaminate tra cinque e dieci anni, che significa che ormai saranno già dentro gli Stati Uniti. Ora, è un sistema che non può funzionare e che colpisce proprio le persone più deboli. Ed è lì che Trump ha vinto, perché Trump non ha preso solo i voti dei ricchi che vogliono le tasse inferiori, ha preso anche molti più voti di afroamericani, di ispanici, ha preso i voti negli Stati chiave della Midwest di operai in crisi per via della globalizzazione, di famiglie della classe media impoverite per via dell’inflazione. In pratica si è guadagnato i voti del ceto medio e medio basso, che normalmente e in altre situazioni avrebbe votato democratico».
Il meccanismo domanda-offerta viene sconvolto da questo flusso migratorio indiscriminato?
«Certamente. Una massa così imponente di migranti che arrivano in pochi anni in un Paese crea paura, crea competizione per chi già vive di stipendi bassi, impedisce a quegli stipendi bassi di alzarsi, perché c’è sempre qualcuno più povero di te che vuole occupare quel posto. Inoltre alcuni di questi migranti sono legati alla diffusione del Fentanyl perché nel flusso migratorio sono stati compresi anche soggetti che hanno compiuto reati. Tutto ciò ha creato un clima molto favorevole alla politica di Trump, che fa leva su questo fattore per far dimenticare che la guerra in Ucraina non si è chiusa che nella striscia di Gaza si continua a morire e che la Cina sta mostrando i muscoli, perché il recente accordo non so se sia più vantaggioso per Pechino o per Washington».
Lasciamo le tensioni internazionali e torniamo al negozio di giocattoli. Qual era il tuo preferito?
«Il trenino elettrico. Avevo un Flashman, un trenino elettrico tedesco che costava una fortuna. Però spesso i pezzi che usavo mamma li prendeva e li rivendeva...». Con il suo Flashman Claudio Pagliara ha idealmente varcato confini, raccontato storie, visto il mondo nelle sue mille sfaccettature. Un volto cordiale, un amico entrato nelle case degli italiani con garbo, tatto, sensibilità. Un figlio illustre della nostra Ciociaria.
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