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L'intervista

Il Covid nell'inferno di Kabul: il ruolo fondamentale di Emergency

La testimonianza del dottor Antonio Bruscoli in Afghanistan con Emergency: "La raccolta dei dati è ostacolata da una serie di realtà politiche e territoriali"

Ha lavorato diversi mesi in Africa durante l'emergenza dovuta al virus Ebola. Ha aiutato tantissimi uomini, donne e bambini. Per loro è stato uno degli angeli con il camice bianco. Ha prestato soccorso alle vittime di guerra. Dalla Sierra Leone all'Afghanistan, il chirurgo Antonio Bruscoli, di Ferentino, non si è mai tirato indietro. Il dottore di Emergency, l'associazione umanitaria italiana, ci ha raccontato la situazione nell'ultimo luogo dove ha svolto la sua missione, in Afghanistan, a Kabul. Proprio in Afghanistan tornerà nei primi giorni di maggio.

Come è la situazione in Afghanistan?
«Molto fluida, come nel resto del mondo. Ci sono pochi casi rispetto all'Occidente avanzato, circa settecento con una quarantina di decessi, ma, come potete ben immaginare, la raccolta dei dati è ostacolata da una serie di realtà politiche e territoriali, inclusa una guerra in atto, che rendono il lavoro difficile e incompleto. Nonostante la pace siglata tra Usa e talebani, a Kabul ci sono due presidenti della repubblica autoproclamati e attentati e mass casualty continue. Senza pensare alle province lontane, dove l'Isis sta tornando ad essere attiva, escluse dal controllo del governo centrale ed in cui anche le organizzazioni umanitarie e la stessa Oms faticano a entrare e raccogliere dati. La maggior parte dei casi sono di rifugiati ed emigranti di ritorno dall'Iran e dal Pakistan che, impauriti dal possibile contagio in quei Paesi molto colpiti, passano frontiere mal controllate. Un fenomeno che assomiglia a quello italiano di alcune settimane fa, l'assalto ai treni per il sud da Milano».

Come sta vivendo l'attuale momento?
«Come tutti. Molta preoccupazione per ciò che sta avvenendo e per il futuro. Ho lasciato l'Italia qualche anno fa, ma lì restano la maggior parte dei miei affetti. Gli emigranti non lasciano mai definitivamente il proprio Paese di origine, soprattutto con la mente. Per fortuna vedo che in Ciociaria, sempre nel mio cuore, il sistema sanitario sta reggendo molto bene grazie all'abnegazione dei colleghi e del personale sanitario e a un substrato organizzativo ancora non inquinato dalla medicina privata, la cui prevalenza sta lasciando il fianco a molte critiche in altre regioni. C'è grande preoccupazione anche per il settore al quale ho dedicato la mia vita, la cooperazione umanitaria. La crisi economica che arriverà renderà incerta l'attuazione di molti progetti nei Paesi in via di sviluppo, ma dobbiamo farci forza e escogitare soluzioni alternative. Sarà una nuova sfida».

Quali differenze sta notando tra l'Afghanistan e l'Italia?
«Nell'attenzione da parte della gente, meno emotivamente coinvolta in un Paese in guerra da più di quaranta anni ed in cui intere generazioni sono cresciute senza avere la possibilità di conoscere il significato della parola pace. Parlando con un collega alcuni giorni fa mi sono sentito dire: "Beati voi europei che potete permettervi di pensare solo al Coronavirus". Non sottovalutava il problema, semplicemente lo affiancava ad altri due macigni che gravano su quella popolazione sfortunata, la guerra e la povertà».

Di cosa avete bisogno urgentemente?
«Fortunatamente gli ospedali di Emergency sono dotati di tutto l'occorrente per prevenire il contagio e ridurre la diffusione del virus. Cinque anni fa siamo stati in prima fila nella lotta a un virus molto più letale, Ebola, e abbiamo fatto tesoro di quell'esperienza. Ai primi contagi comunicati da Wuhan (l'Afghanistan confina con la Cina del sud), sono stati tirati fuori tutti i presidi che fanno parte del corredo permanente di un ospedale in zone a rischio. Tende per il triage, stivali, mascherine e caschi, oltre ad abolire le visite dei parenti e attuare quelle misure di distanziamento che rappresentano una regola ormai acquisita negli anni. Sono state messe a punto tecniche di vestizione e spogliamento molto precise che danno sicurezza agli operatori, oltre a limitazioni di tempo di azione degli stessi che riducono automaticamente i rischi di infettarsi. Ho operato molti mesi in Africa durante il virus Ebola e sinceramente non mi sono mai sentito in pericolo se rispettavo i protocolli.

Quello di cui ci sarà bisogno è altro. Vorrei che il mondo occidentale, dopo questa dura prova, non si chiudesse in se stesso, ma finalmente inizi a vedere il villaggio globale che ha creato non solo come un enorme e-commerce ma come una comunità unica da curare e seguire per portare tutti a un accettabile livello di vita. Durante il virus Ebola la percezione era che il mondo occidentale fosse preoccupato principalmente che il contagio non arrivasse a loro, e quando l'epidemia è terminata se ne sono dimenticati. Oggi c'è la riprova che tutto può accadere, anche ai più ricchi e fortunati, e quindi conviene aprire gli orizzonti, abbandonare schieramenti e localismi, abbassare i toni e iniziare a considerarci non solo come possibili clienti ma come fratelli».

Cosa la preoccupa maggiormente?
«L'Italia è forte e ricca, checché se ne dica. Si rialzerà più forte di prima, soprattutto se farà tesoro degli errori commessi. Sono preoccupato per i Paesi poveri, soprattutto per la mia Africa. Come sapete uno degli strumenti diagnostici nella lotta al Covid è la tac del torace per scoprire precocemente la polmonite. In Sierra Leone, così come in Angola, Repubblica Centrafricana e anche in Afghanistan, non esistono Tc pubbliche, ma solo private e con prezzi accessibili soltanto a pochi. Per non parlare dei ventilatori. In Sierra Leone ne esiste solo uno e in Afghanistan nessuno. Dati allucinanti. Qualora ci fosse la possibilità di dotare i Paesi poveri di tamponi diagnostici, per i malati che sviluppano complicazioni polmonari non ci sarà scampo. Mi conforta il fatto che più si è poveri più si fa tesoro delle esperienze.

La Sierra Leone, memore dell'ecatombe di Ebola, ha chiuso tutte le frontiere prima del caso zero, ha istituito il lockdown, attivato in anticipo due ospedali come centro di raccolta per i casi conclamati e requisito molti alberghi per la quarantena. Ciò a cui siamo arrivati in Italia dopo più di diecimila morti, raggiungere un accordo con l'ospedale Celio a Roma e istituire Covid Hospital, loro, poveri e cosiddetti ignoranti, lo hanno fatto prima del disastro. Attualmente si contano solamente tredici casi ma quasi duemila persone raccolte e controllate in quarantena. Ciò mi conforta e mi conferma che non esistono "fenomeni" ma solo opportunità che non tutti hanno l'occasione di avere».

In Italia c'è difficoltà a reperire le mascherine. Da voi la situazione come è?
«Quando sono arrivato a Kabul la prima volta sono rimasto stupito che la maggior parte delle persone indossasse una mascherina e del Covid non c'era ancora notizia. Mi hanno spiegato che Kabul, tre milioni di abitanti, è la città più inquinata del mondo, conseguenza di tutte le auto euro 0 che noi scartiamo e loro continuano ad utilizzare. Non ci sono mascherine professionali, ma ognuno si aiuta come può».

Lei è uno degli angeli bianchi in prima linea, come pensa che si dovrà ripartire quando si potrà tornare a progettare?
«Come mi hanno insegnato i miei amici neri della Sierra Leone, ogni grande catastrofe sarà anche una grande opportunità. Rendere il mondo migliore attraverso uno sviluppo sostenibile che rispetti la natura e aiuti i più deboli e bisognosi, poiché apparteniamo a una stessa catena di eventi il cui anello debole rappresenta la forza della stessa, come testimoniato dal caso delle Rsa italiane. Una sanità mondiale libera dai vincoli del profitto e dell'opportunismo e un ritorno alla giusta dimensione di un essere umano nato per cooperare ed aiutare e non per essere chiuso in recinti che un qualsiasi virus senza volto può infettare causando un disastro come quello a cui stiamo assistendo. Sono un "ciociaro pride" in giro per il mondo. La mia terra di origine questi valori li ha nel suo dna naturale, quello dei nostri nonni e genitori. Famiglie allargate e porte aperte a tutti. Era così nei nostri paesi, da Piglio a San Vittore del Lazio. Per questo riusciamo a difenderci. Ed è da qui che bisognerà ripartire».

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